Tuareg. Alberto Vazquez-Figueroa
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«Devo andare», disse. «Devo fare rapporto al capitano e vedere che tutto sia in ordine. Quanto tempo ti fermerai?»
Gacel alzò le spalle facendo segno che non lo sapeva.
«Capisco. Rimani quanto vuoi, ma non ti avvicinare alle baracche. Le sentinelle hanno l’ordine di sparare a vista.»
«Perché?»
Il sergente Malik-el-Haideri sorrise in modo enig-matico e con un gesto della testa indicò la più appartata delle casette di legno.
«Il capitano non ha molti amici», puntualizzò. «Né lui né io li abbiamo, ma io so badare a me stesso»
Si allontanò quando ormai le ombre cominciavano a scivolare nell’oasi fermandosi ai bordi delle palme, e le voci risuonavano con maggior nitidezza, mentre i soldati ritornavano con le pale in spalla, stanchi e sudati, sospirando il rancio e il pagliericcio che li avrebbe condotti per alcune ore nel mondo dei sogni, lontano dall’inferno di Adoras.
Ci fu un crepuscolo brevissimo, il cielo passò, quasi
senza transizione, dal rosso al nero e subito brillarono le luci nelle capanne.
Solamente l’abitazione del capitano aveva gli scuri che impedivano di vedere ciò che accadeva dentro e, prima che calasse completamente la notte, una sentinella montò di guardia, rigida e con l’arma pronta, a meno di venti metri dalla porta.
Mezz’ora dopo quella porta si aprì e vi si stagliò una figura alta e robusta. Gacel non ebbe bisogno di distinguere le stellette della sua uniforme per riconoscere l’uomo che aveva ucciso il suo ospite. Lo vide rimanere fermo per alcuni momenti, respirando a pieni polmoni l’aria della notte, e accendersi una sigaretta. La luce del fiammifero gli portò alla memoria ogni suo movimento e l’espressione dura e sprezzante dei suoi occhi mentre assicurava che lui era la legge. Si sentì tentato di caricare la sua arma e di ucciderlo con un solo colpo. A una distanza così breve, chiaramente visibile in controluce, si sentiva capace di mettergli una pallottola in testa spegnendo contemporaneamente la sigaretta nella bocca, ma non lo fece. Si limitò a osservarlo a meno di cento metri di distanza, compiacendosi nell’immaginare che cosa avrebbe pensato quell’uomo nel vedere che il targuf che aveva offeso e disprezzato era seduto lì, davanti a lui, appoggiato a una palma e vicino alla brace di un focolare, a meditare se ucciderlo in quel momento o se lasciarlo per dopo.
Per tutti quegli uomini della città trapiantati nel deserto, che non avevano imparato ad amare e che in realtà odiavano, desiderando scappare a qualunque prezzo, loro, i tuareg, non costituivano altro che una parte del paesaggio; tanto erano incapaci di distinguerli l’uno dall’altro.
Non avevano nozione né del tempo, né dello spazio, né degli odori e dei colori del deserto, e nello stesso
do non capivano ciò che distingueva un guerriero del p1 polo del Velo da un imohag del Popolo della Spada, n inrnouchar da un servo, o un’autentica donna tarf libera e forte, da una povera beduina schiava di un harem.
Si sarebbe potuto avvicinare a lui, parlargli per mezz’ora della notte e delle stelle, dei venti e delle gazzelle e lui non avrebbe riconosciuto in «quello straccione puzzolente» colui che aveva cercato di affrontarlo cinque giorni prima. Per anni i francesi avevano cercato invano di fare scoprire il volto ai tuareg.
Infine, convinti che non avrebbero mai abbandonato il velo, dovettero arrivare alla conclusione che non sarebbero mai stati in grado di distinguerli dalla voce o dai gesti e abbandonarono completamente la speranza di differenziarli.
Né Malik, né l’ufficiale, né tutti quei soldati che spalavano sabbia erano francesi, ma erano simili per la loro ignoranza e il loro disprezzo per il deserto e i suoi abitanti.
Quando il capitano finì la sigaretta gettò il mozzicone sulla sabbia, salutò svogliatamente la sentinella e chiuse la porta, da dove si sentì il rumoroso scorrere del pesante catenaccio. Le luci si andavano spegnendo una dopo l’altra e l’accampamento e l’oasi rimasero in silenzio; un silenzio rotto soltanto dal sussurro dei pennacchi delle palme agitati da una leggera brezza e dal lontano grido di uno sciacallo affamato.
Gacel si avvolse nel suo mantello, appoggiò la testa sulla sella, lanciò un’ultima occhiata alle baracche e alla fila dei veicoli e si addormentò.
L’alba lo sorprese mentre, in cima alla palma più carica, gettava a terra pesanti rami di datteri maturi. Ne riempì un sacco; riempì anche di acqua le sue ger bas sellò il mehari che protestò rumorosamente, desiderando rimanere ancora all’ombra vicino al pozzo.
I soldati avevano cominciato a fare la loro apparizione orinando contro le dune e lavandosi il viso nell’abbeveratoio del pozzo più grande; anche il sergente Malik-el-Haideri abbandonò il suo alloggio e si avvicinò con passo rapido e sicuro.
«Te ne vai?» domandò, anche se la domanda era chiaramente inutile. «Credevo che saresti rimasto a riposarti per un paio di giorni.»
«Non sono stanco.»
«Lo vedo. E mi dispiace. Fa piacere a volte parlare con uno straniero. Questa feccia non pensa altro che a rubare o alle donne.»
Gacel non rispose, occupato ad assicurare bene i sacchi in modo che i sobbalzi del cammello non li facessero cadere dopo appena cinquecento metri, e Malik lo aiutò dall’altra parte del cammello, continuando a fargli domande.
«Se il capitano mi desse il permesso, mi porteresti con te alla ricerca della Grande Carovana?»
II targuf negò con un gesto. «La terra vuota non è luogo per te. Solamente noi imohag possiamo penetrarvi.»
«Io porterei tre cammelli. Potremo avere più acqua e più provviste. In quella carovana c’è denaro che avanza per tutti. Ne darei una parte al capitano, con l’altra comprerei il mio trasferimento e me ne rimarrebbe ancora per il resto della vita. Portami con te!»
«No.»
Il sergente maggiore Malik non insistè, ma scorse lentamente con la vista le palme, le baracche e le dune di sabbia che chiudevano tutto dai quattro lati, trasformando il posto militare in una prigione in cui le sbarre erano state sostituite da alte dune che minacciavano di sotterrarli una volta per sempre.
<Ancora undici anni qui!» mormorò quasi tra sé. (<riesco a sopravvivere sarò vecchio, mi hanno nernfmo il diritto al congedo e alla pensione. Dove gat0 p9 >> Si rivolse di nuovo al targui: «Ma non è 311 Ho morire degnamente nel deserto, con la speranza un colpo di fortuna possa cambiar tutto?»
C6«Forse.»
«È quello che provi a fare tu, non è vero? Preferisci rischiare che vivere male trasportando mattoni.»
«Io sono targui. Tu no.»
«Oh, va’ all’inferno, con il tuo maledetto orgoglio Hi razza!» protestò di malumore. «Ti credi migliore perché ti hanno abituato da bambino a sopportare il caldo e la sete? Io ho dovuto sopportare questi figli di puttana e non so che cosa è peggio. Vattene! Quando vorrò andare in cerca della Grande Carovana lo farò da solo. Non ho bisogno di te.»
Gacel sorrise leggermente sotto il velo senza che l’altro potesse vederlo, obbligò il suo cammello a mettersi in piedi e si allontanò piano, conducendolo per la cavezza.