Tuareg. Alberto Vazquez-Figueroa
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«Francesi?» domandò. «I francesi sono andati via da anni. Adesso siamo indipendenti», aggiunse, «il deserto è formato da paesi liberi e indipendenti. Non lo sapeva?»
Gacel meditò alcuni istanti. Qualcuno, una volta, gli aveva detto che, molto al Nord, si stava dichiarando una guerra perché gli arabi volevano liberarsi dal giogo dei rumis, ma non aveva prestato attenzione al fatto, perché quella guerra veniva dichiarata da quando suo nonno aveva memoria. Per lui essere indipendente era vagare da solo per il suo territorio e nessuno si era scomodato per andargli a dire che apparteneva a un nuovo paese.
Negò con un gesto. «No. Non lo sapevo», ammise confuso. «E neanche sapevo che esiste una frontiera. Chi è capace di tracciare una frontiera nel deserto? Chi evita che il vento porti la sabbia da una parte all’altra? Chi impedirà che gli uomini la attraversino?»
«I soldati.»
Lo guardò sorpreso. «Soldati? Non ci sono abba stanza soldati nel mondo per proteggere una frontiera nel deserto. E i soldati lo temono.» Sorrise appena sotto il velo che nascondeva il viso che non scopriva mai quando si trovava davanti a estranei. «Solo noi, gli imohag, non temiamo il deserto. Qui i soldati sono come acqua versata: la sabbia se li ingoia.»
Il giovane voleva parlare ancora, ma il targui gli disse che era molto stanco e lo obbligò a distendersi sui cuscini.
«Non ti sforzare», lo pregò. «Sei debole. Domani parleremo e forse il tuo amico starà meglio.» Si voltò a guardare ‘l’anziano e per la prima volta notò che non doveva essere tanto vecchio come aveva creduto all’inizio, anche se i suoi capelli erano bianchi e radi e il suo viso appariva solcato da profonde rughe. «Chi è?» domandò.
L’altro esitò qualche istante. Chiuse gli occhi e bisbigliò:
«Un saggio. Studia la storia dei nostri antenati più remoti. Ci stavamo dirigendo verso Dajbadel quando il nostro camion si ruppe».
«Dajbadel è molto lontano», gli fece notare Gacel; ma il giovane era caduto in un sonno profondo. «Molto, molto lontano, verso il Sud. Non sono mai arrivato fino a lì.»
Uscì senza far rumore e all’aria aperta provò una sensazione di vuoto allo stomaco che mai aveva provato, come un presentimento. Qualcosa in quegli uomini apparentemente inoffensivi lo inquietava. Non erano armati né il loro aspetto faceva temere qualche pericolo, ma un alito di paura aleggiava intorno a loro ed era quella paura che lui percepiva.
«Studia la storia dei nostri antenati», aveva detto il giovane, ma il viso dell’altro appariva marcato da segni di sofferenza così profonda che non potevano essere causati soltanto da una settimana di fame e di sete nel deserto.
Guardò la notte che si avvicinava e cercò in lei la risposta alle sue domande. Il suo spirito di targui e le millenarie tradizioni del deserto gli gridavano che aveva agito correttamente nelPaccogliere sotto il suo tetto i viaggiatori, poiché il sentimento dell’ospitalità costituiva il primo comandamento della legge non scritta degli imohag, ma l’istinto dell’uomo abituato a farsi guidare dai presentimenti e il sesto senso che lo aveva salvato tante volte dalla morte gli sussurravano che stava correndo un grave rischio e che coloro che erano appena arrivati mettevano in pericolo la pace che era riuscito a ottenere con tanto sforzo.
Laila andò vicino a lui e i suoi occhi si rallegrarono alla dolce presenza e alla prodigiosa bellezza adolescente della moglie bambina dalla pelle scura che aveva fatto diventare sua sposa anche contro l’opinione degli anziani che non vedevano di buon occhio che un mouchar di tanto nobile lignaggio si unisse legalmente con un membro della disprezzabile casta degli schiavi akli.
Gli si mise seduta accanto, lo guardò in faccia con i suoi immensi occhi neri, sempre pieni di vita e di riflessi nascosti, e domandò dolcemente:
«Ti preoccupano quegli uomini, non è vero?»
«Non loro», rispose pensoso, «ma qualcosa che li accompagna come un’ombra o un odore.»
«Vengono da lontano. E tutto ciò che viene da lontano ti turba, perché mia nonna ha predetto che non morirai nel deserto.» Allungò la mano timidamente fino a toccare la sua. «Mia nonna si sbagliava spesso», aggiunse. «Quando sono nata mi predisse un futuro tetro e invece mi sono sposata con un nobile, quasi un principe.»
Gacel le sorrise guardandola con dolcezza.
«Ricordo quando sei nata», disse, «non deve essere più di quindici anni fa. Il tuo futuro non è ancora cominciato.»
Gli dispiacque di averla intristita perché la amava e, anche se un imohag non doveva mostrarsi troppo tenero con le donne, era la madre dell’ultimo dei suoi figli, quindi aprì a sua volta la mano per stringere la sua.
«Forse hai ragione e la vecchia Khaltoum si sarà sbagliata», aggiunse. «Nessuno può obbligarmi ad abbandonare il deserto e a morire lontano.»
Rimasero a lungo in silenzio a contemplare la notte e sentì che la sensazione di pace lo pervadeva nuovamente.
Certo è che la negra Khaltoum predisse con un anno di anticipo la malattia che avrebbe portato suo padre alla tomba e predisse anche la grande siccità che prosciugò i pozzi, lasciò senza un filo d’erba il deserto e uccise centinaia di animali abituati da sempre alla sete e alla siccità, ma era anche certo che spesso la vecchia schiava parlava per parlare e le sue visioni sembravano più frutto di una mente senile che autentiche premonizioni.
«Che cosa c’è dall’altra parte del deserto?» domandò Laila dopo quel lungo silenzio. «Non sono mai andata oltre le montagne di Huaila.»
«Gente», fu la risposta. «Molta gente.» Gacel meditò ricordando la sua esperienza a El-Akab e le oasi del Nord e scosse la testa negativamente. «Le piace ammucchiarsi in piccoli spazi o in strette e puzzolenti case, gridando e agitandosi senza ragione, rubandosi e ingannandosi come bestie che sanno vivere soltanto in branco.»
«Perché?»
Avrebbe voluto rispondere, perché lo inorgogliva l’ammirazione che Laila sentiva per lui, ma non conosceva la risposta. Lui era un imohag nato e cresciuto nella solitudine dei grandi spazi vuoti e nella sua mente, per quanto ci provasse, non entrava l’idea dell’affollamento e il volontario aggregarsi a cui sembravano tanto affezionati gli uomini e le donne delle altre tribù.
Gacel riceveva con piacere i visitatori e amava riunirsi intorno al fuoco a raccontare vecchie storie e a commentare i piccoli incidenti della vita quotidiana, ma poi, quando la brace si era consumata e il nero cammello che trasportava sulle spalle il sonno attraversava silenzioso e invisibile l’accampamento, ciascuno si ritirava nella sua tenda, a vivere da solo la sua vita, a respirare profondamente, a godere del silenzio.
Nel Sahara ciascun uomo aveva il tempo, la pace e l’atmosfera necessari per incontrarsi con se stesso, guardare lontano e dentro di sé, studiare la natura che lo circondava e meditare su quanto conosceva attraverso i testi sacri. Invece nelle città, nei villaggi e perfino nei paesucoli barbari non c’era pace, né tempo, né spazio; era tutto uno stordirsi con rumori e problemi altrui, con voci e risse di estranei e si aveva l’impressione che fosse molto più importante ciò che accadeva agli altri, di ciò che poteva accadere a se stessi.
«Non lo so», ammise infine contrariato. «Non ho potuto mai scoprire perché alla gente piace agire in questo modo, ammucchiarsi e vivere dipendenti l’uno dall’altro.