La coscienza di Zeno. Italo Svevo

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La coscienza di Zeno - Italo  Svevo

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così privo di colore. Quella respirazione che non fu sempre uguale, ma sempre rumorosa, divenne come una parte di quella stanza. Da quell’ora vi fu sempre, per lungo e lungo tempo!

      Passai alcune ore gettato su un sofà, mentre Maria stava seduta accanto al letto. Su quel sofà piansi le mie più cocenti lacrime. Il pianto offusca le proprie colpe e permette di accusare, senz’obbiezioni, il destino. Piangevo perché perdevo il padre per cui ero sempre vissuto. Non importava che gli avessi tenuto poca compagnia. I miei sforzi per diventare migliore non erano stati fatti per dare una soddisfazione a lui? Il successo cui anelavo doveva bensì essere anche il mio vanto verso di lui, che di me aveva sempre dubitato, ma anche la sua consolazione. Ed ora invece egli non poteva più aspettarmi e se ne andava convinto della mia insanabile debolezza. Le mie lacrime erano amarissime.

      Scrivendo, anzi incidendo sulla carta tali dolorosi ricordi, scopro che l’immagine che m’ossessionò al primo mio tentativo di vedere nel mio passato, quella locomotiva che trascina una sequela di vagoni su per un’erta, io l’ebbi per la prima volta ascoltando da quel sofà il respiro di mio padre. Vanno così le locomotive che trascinano dei pesi enormi: emettono degli sbuffi regolari che poi s’accelerano e finiscono in una sosta, anche quella una sosta minacciosa perché chi ascolta può temere di veder finire la macchina e il suo traino a precipizio a valle. Davvero! Il mio primo sforzo di ricordare, m’aveva riportato a quella notte, alle ore più importanti della mia vita.

      Il dottore Coprosich arrivò alla villa quando ancora non albeggiava, accompagnato da un infermiere che portava una cassetta di medicinali. Aveva dovuto venir a piedi perché, a causa del violento uragano, non aveva trovata una vettura.

      Lo accolsi piangendo ed egli mi trattò con grande dolcezza incorandomi anche a sperare. Eppure devo subito dire, che dopo quel nostro incontro, a questo mondo vi sono pochi uomini che destino in me una così viva antipatia come il dottor Coprosich. Egli, oggi, vive ancora, decrepito e circondato dalla stima di tutta la città. Quando lo scorgo così indebolito e incerto camminare per le vie in cerca di un poco d’attività e d’aria, in me, ancora adesso, si rinnova l’avversione.

      Allora il dottore avrà avuto poco più di quarant’anni. S’era dedicato molto alla medicina legale e, per quanto fosse notoriamente un buonissimo italiano, gli venivano affidate dalle imperial regie autorità le perizie più importanti. Era un uomo magro e nervoso, la faccia insignificante rilevata dalla calvizie che gli simulava una fronte altissima. Un’altra sua debolezza gli dava dell’importanza: quando levava gli occhiali (e lo faceva sempre quando voleva meditare) i suoi occhi accecati guardavano accanto o al disopra del suo interlocutore e avevano il curioso aspetto degli occhi privi di colore di un statua, minacciosi o, forse, ironici. Erano degli occhi spiacevoli allora. Se aveva da dire anche una sola parola rimetteva sul naso gli occhiali ed ecco che i suoi occhi ridivenivano quelli di un buon borghese qualunque che esamina accuratamente le cose di cui parla.

      Si sedette in anticamera e riposò per qualche minuto. Mi domandò di raccontargli esattamente quello ch’era avvenuto dal primo allarme fino al suo arrivo. Si levò gli occhiali e fissò con i suoi occhi strani la parete dietro di me.

      Cercai di essere esatto, ciò che non fu facile dato lo stato in cui mi trovavo. Ricordavo anche che il dottor Coprosich non tollerava che le persone che non sapevano di medicina usassero termini medici atteggiandosi a sapere qualche cosa di quella materia. E quando arrivai a parlare di quella che a me era apparsa quale una «respirazione cerebrale» egli si mise gli occhiali per dirmi: «Adagio con le definizioni. Vedremo poi di che si tratti». Avevo parlato anche del contegno strano di mio padre, della sua ansia di vedermi, della sua fretta di coricarsi. Non gli riferii i discorsi strani di mio padre: forse temevo di essere costretto di dire qualche cosa delle risposte che allora io a mio padre avevo dato. Raccontai però che papà non arrivava ad esprimersi con esattezza e che pareva pensasse intensamente a qualche cosa che s’aggirava nella sua testa e ch’egli non arrivava a formulare. Il dottore, con tanto d’occhiali sul naso, esclamò trionfalmente:

      – So quello che s’aggirava nella sua testa!

      Lo sapevo anch’io, ma non lo dissi per non far arrabbiare il dottor Coprosich: erano gli edemi.

      Andammo al letto dell’ammalato. Con l’aiuto dell’infermiere egli girò e rigirò quel povero corpo inerte per un tempo che a me parve lunghissimo. Lo ascoltò e lo esplorò. Tentò di farsi aiutare dal paziente stesso, ma invano.

      – Basta! – disse ad un certo punto. Mi si avvicinò con gli occhiali in mano guardando il pavimento e, con un sospiro, mi disse:

      – Abbiate coraggio! È un caso gravissimo.

      Andammo alla mia stanza ove egli si lavò anche la faccia.

      Era perciò senza occhiali e quando l’alzò per asciugarla, la sua testa bagnata sembrava la testina strana di un amuleto fatta da mani inesperte. Ricordò di averci visti alcuni mesi prima ed espresse meraviglia perché non fossimo più ritornati da lui. Anzi aveva creduto che lo avessimo abbandonato per altro medico; egli allora aveva ben chiaramente dichiarato che mio padre abbisognava di cure. Quando rimproverava, così senz’occhiali, era terribile. Aveva alzata la voce e voleva spiegazioni. I suoi occhi le cercavano dappertutto.

      Certo egli aveva ragione ed io meritavo dei rimproveri. Debbo dire qui, che sono sicuro che non è per quelle parole che io odio il dottor Coprosich. Mi scusai raccontandogli dell’avversione di mio padre per medici e medicine; parlavo piangendo e il dottore, con bontà generosa, cercò di quietarmi dicendomi che se anche fossimo ricorsi a lui prima, la sua scienza avrebbe potuto tutt’al più ritardare la catastrofe cui assistevamo ora, ma non impedirla.

      Però, come continuò a indagare sui precedenti della malattia, ebbe nuovi argomenti di rimprovero per me. Egli voleva sapere se mio padre in quegli ultimi mesi si fosse lagnato delle sue condizioni di salute, del suo appetito e del suo sonno. Non seppi dirgli nulla di preciso; neppure se mio padre avesse mangiato molto o poco a quel tavolo a cui sedevamo giornalmente insieme. L’evidenza della mia colpa m’atterrò, ma il dottore non insistette affatto nelle domande. Apprese da me che Maria lo vedeva sempre moribondo e ch’io perciò la deridevo.

      Egli stava pulendosi le orecchie, guardando in alto. – Fra un paio d’ore probabilmente ricupererà la coscienza almeno in parte, – disse.

      – C’è qualche speranza dunque? – esclamai io.

      – Nessunissima! – rispose seccamente. – Però le mignatte non sbagliano mai in questo caso. Ricupererà di sicuro un po’ della sua coscienza, forse per impazzire.

      Alzò le spalle e rimise a posto l’asciugamano. Quell’alzata di spalle significava proprio un disdegno per l’opera propria e m’incoraggiò a parlare. Ero pieno di terrore all’idea che mio padre avesse potuto rimettersi dal suo torpore per vedersi morire, ma senza quell’alzata di spalle non avrei avuto il coraggio di dirlo.

      – Dottore! – supplicai. – Non le pare sia una cattiva azione di farlo ritornare in sé?

      Scoppiai in pianto. La voglia di piangere l’avevo sempre nei miei nervi scossi, ma mi vi abbandonavo senza resistenza per far vedere le mie lagrime e farmi perdonare dal dottore il giudizio che avevo osato di dare sull’opera sua.

      Con grande bontà egli mi disse:

      – Via, si calmi. La coscienza dell’infermo non sarà mai tanto chiara da fargli comprendere il suo stato. Egli non è un medico. Basterà non dirgli ch’è moribondo, ed egli non lo saprà. Ci può invece toccare di peggio: potrebbe cioè impazzire. Ho però portata con me la camicia di forza e l’infermiere resterà qui.

      Più spaventato che mai, lo supplicai di non applicargli le mignatte. Egli allora con tutta calma mi raccontò che

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