La coscienza di Zeno. Italo Svevo
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Читать онлайн книгу La coscienza di Zeno - Italo Svevo страница 12
Io odio quell’uomo perché egli allora s’arrabbiò con me. È ciò ch’io non seppi mai perdonargli. Egli s’agitò tanto che dimenticò d’inforcare gli occhiali e tuttavia scoperse esattamente il punto ove si trovava la mia testa per fissarla con i suoi occhi terribili. Mi disse che gli pareva io volessi recidere anche quel tenue filo di speranza che vi era ancora. Me lo disse proprio così, crudamente.
Ci si avviava a un conflitto. Piangendo e urlando obbiettai che pochi istanti prima egli stesso aveva esclusa qualunque speranza di salvezza per l’ammalato. La casa mia e chi vi abitava non dovevano servire ad esperimenti per i quali c’erano altri posti a questo mondo!
Con grande severità e una calma che la rendeva quasi minacciosa, egli rispose:
– Io le spiegai quale era lo stato della scienza in quell’istante. Ma chi può dire quello che può avvenire fra mezz’ora o fino a domani? Tenendo in vita suo padre io ho lasciata aperta la via a tutte le possibilità.
Si mise allora gli occhiali e, col suo aspetto d’impiegato pedantesco, aggiunse ancora delle spiegazioni che non finivano più, sull’importanza che poteva avere l’intervento del medico nel destino economico di una famiglia. Mezz’ora in più di respiro poteva decidere del destino di un patrimonio.
Piangevo oramai anche perché compassionavo me stesso per dover star a sentire tali cose in simile momento. Ero esausto e cessai dal discutere. Tanto le mignatte erano già state applicate!
Il medico è una potenza quando si trova al letto di un ammalato ed io al dottor Coprosich usai ogni riguardo. Dev’essere stato per tale riguardo ch’io non osai di proporre un consulto, cosa che mi rimproverai per lunghi anni. Ora anche quel rimorso è morto insieme a tutti i miei altri sentimenti di cui parlo qui con la freddezza con cui racconterei di avvenimenti toccati ad un estraneo. Nel mio cuore, di quei giorni, non v’è altro residuo che l’antipatia per quel medico che tuttavia si ostina a vivere.
Più tardi andammo ancora una volta al letto di mio padre. Lo trovammo che dormiva adagiato sul fianco destro. Gli avevano posta una pezzuola sulla tempia per coprire le ferite prodotte dalle mignatte. Il dottore volle subito provare se la sua coscienza avesse aumentato e gli gridò nelle orecchie. L’ammalato non reagì in alcun modo.
– Meglio così! – dissi io con grande coraggio, ma sempre piangendo.
– L’effetto atteso non potrà mancare! – rispose il dottore. – Non vede che la respirazione s’è già modificata?
Infatti, frettolosa e affaticata, la respirazione non formava più quei periodi che mi avevano spaventato.
L’infermiere disse qualche cosa al medico che annuì. Si trattava di provare al malato la camicia di forza. Trassero quell’ordigno dalla valigia e alzarono mio padre obbligandolo a star seduto sul letto. Allora l’ammalato aperse gli occhi: erano foschi, non ancora aperti alla luce. Io singhiozzai ancora, temendo che subito guardassero e vedessero tutto. Invece, quando la testa dell’ammalato ritornò sul guanciale, quegli occhi si rinchiusero, come quelli di certe bambole.
Il dottore trionfò:
– È tutt’altra cosa; – mormorò.
Sì: era tutt’altra cosa! Per me nient’altro che una grave minaccia. Con fervore baciai mio padre sulla fronte e nel pensiero gli augurai:
– Oh, dormi! Dormi fino ad arrivare al sonno eterno!
Ed è così che augurai a mio padre la morte, ma il dottore non l’indovinò perché mi disse bonariamente:
– Anche a lei fa piacere, ora, di vederlo ritornare in sé!
Quando il dottore partì, l’alba era spuntata. Un’alba fosca, esitante. Il vento che soffiava ancora a raffiche, mi parve meno violento, benché sollevasse tuttavia la neve ghiacciata.
Accompagnai il dottore in giardino. Esageravo gli atti di cortesia perché non indovinasse il mio livore. La mia faccia significava solo considerazione e rispetto. Mi concessi una smorfia di disgusto, che mi sollevò dallo sforzo, solo quando lo vidi allontanare per il viottolo che conduceva all’uscita della villa. Piccolo e nero in mezzo alla neve, barcollava e si fermava ad ogni raffica per poter resistere meglio. Non mi bastò quella smorfia e sentii il bisogno di altri atti violenti, dopo tanto sforzo. Camminai per qualche minuto per il viale, nel freddo, a capo scoperto, pestando irosamente i piedi nella neve alta. Non so però se tanta ira puerile fosse rivolta al dottore o non piuttosto a me stesso. Prima di tutto a me stesso, a me che avevo voluto morto mio padre e che non avevo osato dirlo. Il mio silenzio convertiva quel mio desiderio ispirato dal più puro affetto filiale, in un vero delitto che mi pesava orrendamente.
L’ammalato dormiva sempre. Solo disse due parole che io non intesi, ma nel più calmo tono di conversazione, stranissimo perché interruppe il suo respiro sempre frequentissimo tanto lontano da ogni calma. S’avvicinava alla coscienza e alla disperazione?
Maria era ora seduta accanto al letto assieme all’infermiere. Costui m’ispirò fiducia e mi dispiacque solo per certa sua coscienziosità esagerata. Si oppose alla proposta di Maria di far prendere all’ammalato un cucchiaino di brodo ch’essa credeva un buon farmaco. Ma il medico non aveva parlato di brodo e l’infermiere volle si attendesse il suo ritorno per decidere un’azione tanto importante. Parlò imperioso più di quanto la cosa meritasse. La povera Maria non insistette ed io neppure. Ebbi però un’altra smorfia di disgusto.
M’indussero a coricarmi perché avrei dovuto passare la notte con l’infermiere ad assistere l’ammalato presso il quale bastava fossimo in due; uno poteva riposare sul sofà. Mi coricai e m’addormentai subito, con completa, gradevole perdita della coscienza e – ne son sicuro – non interrotta da alcun barlume di sogno.
Invece la notte scorsa, dopo di aver passata parte della giornata di ieri a raccogliere questi miei ricordi, ebbi un sogno vivissimo che mi riportò con un salto enorme, attraverso il tempo, a quei giorni. Mi rivedevo col dottore nella stessa stanza ove avevamo discusso di mignatte e camicie di forza, in quella stanza che ora ha tutt’altro aspetto perché è la stanza da letto mia e di moglie. Io insegnavo al dottore il modo di curare e guarire mio padre, mentre lui (non vecchio e cadente com’è ora, ma vigoroso e nervoso com’era allora) con ira, gli occhiali in mano e gli occhi disorientati, urlava che non valeva la pena di fare tante cose. Diceva proprio così: «Le mignatte lo richiamerebbero alla vita e al dolore e non bisogna applicargliele!». Io invece battevo il pugno su un libro di medicina ed urlavo: «Le mignatte! Voglio le mignatte! Ed anche la camicia di forza!».
Pare che il mio sogno si sia fatto rumoroso perché mia moglie l’interruppe destandomi. Ombre lontane! Io credo che per scorgervi occorra un ausilio ottico e sia questo che vi capovolga.
Il mio sonno tranquillo è l’ultimo ricordo di quella giornata. Poi seguirono alcuni lunghi giorni di cui ogni ora somigliava all’altra. Il tempo s’era migliorato; si diceva che s’era migliorato anche lo stato di mio padre. Egli si moveva liberamente nella stanza e aveva cominciata la sua corsa in cerca d’aria, dal letto alla poltrona. Traverso alle finestre chiuse guardava per istanti anche il giardino coperto di neve abbacinante al sole. Ogni qualvolta entravo in quella stanza ero pronto per discutere ed annebbiare quella coscienza che il Coprosich aspettava. Ma mio padre ogni giorno dimostrava bensì di sentire e intendere meglio, ma quella coscienza era sempre lontana.
Purtroppo