La coscienza di Zeno. Italo Svevo

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La coscienza di Zeno - Italo  Svevo

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com’erano andate le cose.

      – Come vedi è proprio con una mente come la mia che bisogna dedicarsi agli affari.

      Subito rabbonito, rise con me:

      – Non è un utile quello che ricavi da tale affare; è un indenizzo. Quella tua testa ti costò già tanto, ch’è giusto ti rimborsi di una parte della tua perdita!

      Non so perché mi fermai tanto a raccontare dei dissidi ch’ebbi con lui e che sono tanto pochi. Io gli volli veramente bene, tant’è vero che ricercai la sua compagnia ad onta che avesse l’abitudine di urlare per pensare più chiaramente. Il mio timpano sapeva sopportare le sue urla. Se le avesse gridate meno, quelle sue teorie immorali sarebbero state più offensive e, se egli fosse stato educato meglio, la sua forza sarebbe sembrata meno importante. E ad onta ch’io fossi tanto differente da lui, credo ch’egli abbia corrisposto al mio con un affetto simile. Lo saprei con maggiore sicurezza se egli non fosse morto tanto presto. Continuò a darmi assiduamente delle lezioni dopo il mio matrimonio e le condì spesso di urla ed insolenze che io accettavo convinto di meritarle.

      Sposai sua figlia. Madre natura misteriosa mi diresse e si vedrà con quale violenza imperativa. Adesso io talvolta scruto le faccie dei miei figliuoli e indago se accanto al mento sottile mio, indizio di debolezza, accanto agli occhi di sogno miei, ch’io loro tramandai, non vi sia in loro almeno qualche tratto della forza brutale del nonno ch’io loro elessi.

      E alla tomba di mio suocero io piansi ad onta che anche l’ultimo addio che mi diede non sia stato troppo affettuoso. Dal suo letto di morte mi disse che ammirava la mia sfacciata fortuna che mi permetteva di movermi liberamente mentre lui era crocifisso su quel letto. Io, stupito, gli domandai che cosa gli avessi fatto per fargli desiderare di vedermi malato. Ed egli mi rispose proprio così:

      – Se dando a te la mia malattia io potessi liberarmene, te la darei subito, magari raddoppiata! Non ho mica le ubbie umanitarie che hai tu!

      Non v’era niente di offensivo: egli avrebbe voluto ripetere quell’altro affare col quale gli era riuscito di caricarmi di una merce deprezzata. Poi anche qui c’era stata la carezza perché a me non spiaceva di veder spiegata la mia debolezza con le ubbie umanitarie ch’egli mi attribuiva.

      Alla sua tomba come a tutte quelle su cui piansi, il mio dolore fu dedicato anche a quella parte di me stesso che vi era sepolta. Quale diminuzione per me venir privato di quel mio secondo padre, ordinario, ignorante, feroce lottatore che dava risalto alla mia debolezza, la mia cultura, la mia timidezza. Questa è la verità: io sono un timido! Non l’avrei scoperto se non avessi qui studiato Giovanni. Chissà come mi sarei conosciuto meglio se egli avesse continuato a starmi accanto!

      Presto m’accorsi che al tavolo del Tergesteo, dove si divertiva a rivelarsi quale era e anche un poco peggiore, Giovanni s’imponeva una riserva: non parlava mai di casa sua o soltanto quando vi era costretto, compostamente e con voce un poco più dolce del solito. Portava un grande rispetto alla sua casa e forse non tutti coloro che sedevano a quel tavolo gli sembravano degni di saperne qualche cosa. Colà appresi soltanto che le sue quattro figliuole avevano tutti i nomi dall’iniziale in a, una cosa praticissima, secondo lui, perché le cose su cui era impressa quell’iniziale potevano passare dall’una all’altra, senz’aver da subire dei mutamenti. Si chiamavano (seppi subito a mente quei nomi): Ada, Augusta, Alberta e Anna. A quel tavolo si disse anche che tutt’e quattro erano belle. Quell’iniziale mi colpì molto più di quanto meritasse. Sognai di quelle quattro fanciulle legate tanto bene insieme dal loro nome. Pareva fossero da consegnarsi in fascio. L’iniziale diceva anche qualche cosa d’altro. Io mi chiamo Zeno ed avevo perciò il sentimento che stessi per prendere moglie lontano dal mio paese.

      Fu forse un caso che prima di presentarmi in casa Malfenti io mi fossi liberato da un legame abbastanza antico con una donna che forse avrebbe meritato un trattamento migliore. Ma un caso che dà da pensare. La decisione a tale distacco fu presa per ragione ben lieve. Alla poverina era parso un bel sistema di legarmi meglio a lei, quello di rendermi geloso. Il sospetto invece bastò per indurmi ad abbandonarla definitivamente. Essa non poteva sapere che io allora ero invaso dall’idea del matrimonio e che credevo di non poter contrarlo con lei, solo perché con lei la novità non mi sarebbe sembrata abbastanza grande. Il sospetto ch’essa aveva fatto nascere in me ad arte era una dimostrazione della superiorità del matrimonio nel quale tali sospetti non devono sorgere. Quando quel sospetto di cui sentii presto l’inconsistenza dileguò, ricordai anche ch’essa spendeva troppo. Oggidì, dopo ventiquattr’anni di onesto matrimonio, non sono più di quel parere.

      Per essa fu una vera fortuna perché, pochi mesi dopo, fu sposata da persona molto abbiente ed ottenne l’ambito mutamento prima di me. Non appena sposato, me la trovai in casa perché il marito era un amico di mio suocero. C’incontrammo spesso, ma, per molti anni, finché fummo giovani, fra noi regnò il massimo riserbo e mai si fece allusione al passato. L’altro giorno ella mi domandò a bruciapelo, con la sua faccia incorniciata da capelli grigi giovanilmente arrossata:

      – Perché mi abbandonaste?

      Io fui sincero perché non ebbi il tempo necessario per confezionare una bugia:

      – Non lo so più, ma ignoro anche tante altre cose della mia vita.

      – A me dispiace, – ella disse e già m’inchinavo al complimento che così mi prometteva. – Nella vecchiaia mi sembrate un uomo molto divertente. – Mi rizzai con uno sforzo. Non era il caso di ringraziare.

      Un giorno appresi che la famiglia Malfenti era ritornata in città da un viaggio di piacere abbastanza prolungato seguito al soggiorno estivo in campagna. Non arrivai a fare alcun passo per essere introdotto in quella casa perché Giovanni mi prevenne.

      Mi fece vedere la lettera di un suo amico intimo che domandava mie nuove: Era stato mio compagno di studii costui e gli avevo voluto molto bene finché l’avevo creduto destinato a divenire un grande chimico. Ora, invece, di lui non m’importava proprio niente perché s’era trasformato in un grande commerciante in concimi ed io come tale non lo conoscevo affatto. Giovanni m’invitò a casa sua proprio perché ero l’amico di quel suo amico e, – si capisce, – io non protestai affatto.

      Quella prima visita io la ricordo come se l’avessi fatta ieri. Era un pomeriggio fosco e freddo d’autunno; e ricordo persino il sollievo che mi derivò dal liberarmi del soprabito nel tepore di quella casa. Stavo proprio per arrivare in porto. Ancora adesso sto ammirando tanta cecità che allora mi pareva chiaroveggenza. Correvo dietro alla salute, alla legittimità. Sta bene che in quell’iniziale a erano racchiuse quattro fanciulle, ma tre di loro sarebbero state eliminate subito e in quanto alla quarta anch’essa avrebbe subito un esame severo. Giudice severissimo sarei stato. Ma intanto non avrei saputo dire le qualità che avrei domandate da lei e quelle che avrei abbominate.

      Nel salotto elegante e vasto fornito di mobili in due stili differenti, di cui uno Luigi XIV e l’altro veneziano ricco di oro impresso anche sui cuoi, diviso dai mobili in due parti, come allora si usava, trovai la sola Augusta che leggeva accanto ad una finestra. Mi diede la mano, sapeva il mio nome e arrivò a dirmi ch’ero atteso perché il suo babbo aveva preavvisata la mia visita. Poi corse via a chiamare la madre.

      Ecco che delle quattro fanciulle dalla stessa iniziale una ne moriva in quanto mi riguardava. Come avevano fatto a dirla bella? La prima cosa che in lei si osservava era lo strabismo tanto forte che, ripensando a lei dopo di non averla vista per qualche tempo, la personificava tutta. Aveva poi dei capelli non molto abbondanti, biondi, ma di un colore fosco privo di luce e la figura intera non disgraziata, pure un po’ grossa per quell’età. Nei pochi istanti in cui restai solo pensai: «Se le altre tre somigliano a questa!…»

      Poco dopo il gruppo delle fanciulle si ridusse a due. Una di esse, ch’entrò con la mamma, non aveva che otto anni.

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