La coscienza di Zeno. Italo Svevo

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La coscienza di Zeno - Italo  Svevo

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Raffaello Sanzio.

      Mia suocera… Ecco! Anch’io provo un certo ritegno a parlarne con troppa libertà! Da molti anni io le voglio bene perché è mia madre, ma sto raccontando una vecchia storia nella quale essa non figurò quale mia amica e intendo di non rivolgerle neppure in questo fascicolo, ch’essa mai vedrà, delle parole meno che rispettose. Del resto il suo intervento fu tanto breve che avrei potuto anche dimenticarlo: Un colpetto al momento giusto, non più forte di quanto occorse per farmi perdere il mio equilibrio labile. Forse l’avrei perduto anche senza il suo intervento, eppoi chissà se essa volle proprio quello che avvenne? È tanto bene educata che non può capitarle come al marito di bere troppo per rivelarmi i miei affari. Infatti mai le accadde nulla di simile e perciò io sto raccontando una storia che non conosco bene; non so cioè se sia dovuta alla sua furberia o alla mia bestialità ch’io abbia sposata quella delle sue figliuole ch’io non volevo.

      Intanto posso dire che all’epoca di quella mia prima visita mia suocera era tuttavia una bella donna. Era elegante anche per il suo modo di vestire di un lusso poco appariscente. Tutto in lei era mite e intonato.

      Avevo così nei miei stessi suoceri un esempio d’integrazione fra marito e moglie quale io la sognavo. Erano stati felicissimi insieme, lui sempre vociando e lei sorridendo di un sorriso che nello stesso tempo voleva dire consenso e compatimento. Essa amava il suo grosso uomo ed egli deve averla conquistata e conservata a furia di buoni affari. Non l’interesse, ma una vera ammirazione la legava a lui, un’ammirazione cui io partecipavo e che perciò facilmente intendevo. Tanta vivacità messa da lui in un ambito tanto ristretto, una gabbia in cui non v’era altro che una merce e due nemici (i due contraenti) ove nascevano e si scoprivano sempre delle nuove combinazioni e relazioni, animava meravigliosamente la vita. Egli le raccontava tutti i suoi affari e lei era tanto bene educata da non dare mai dei consigli perché avrebbe temuto di fuorviarlo. Egli sentiva il bisogno di tale muta assistenza e talvolta correva a casa a monologare nella convinzione di andar a prendere consiglio dalla moglie.

      Non fu una sorpresa per me quando appresi ch’egli la tradiva, ch’essa lo sapeva e che non gliene serbava rancore. Io ero sposato da un anno allorché un giorno Giovanni, turbatissimo, mi raccontò che aveva smarrita una lettera di cui molto gl’importava e volle rivedere delle carte che m’aveva consegnate sperando di ritrovarla fra quelle. Invece, pochi giorni appresso, tutto lieto, mi raccontò che l’aveva ritrovata nel proprio portafogli. «Era di una donna?» domandai io, e lui accennò di sì con la testa, vantandosi della sua buona fortuna. Poi io, per difendermi, un giorno in cui m’accusavano di aver perdute delle carte, dissi a mia moglie e a mia suocera che non potevo avere la fortuna del babbo cui le carte ritornavano da sole al portafogli. Mia suocera si mise a ridere tanto di gusto ch’io non dubitai che quella carta non fosse stata rimessa a posto proprio da lei. Evidentemente nella loro relazione ciò non aveva importanza. Ognuno fa all’amore come sa e il loro, secondo me, non ne era il modo più stupido.

      La signora m’accolse con grande gentilezza. Si scusò di dover tenere con sé la piccola Anna che aveva il suo quarto d’ora in cui non si poteva lasciarla con altri. La bambina mi guardava studiandomi con gli occhi serii. Quando Augusta ritornò e s’assise su un piccolo sofà posto dirimpetto a quello su cui eravamo io e la signora Malfenti, la piccina andò a coricarsi in grembo alla sorella donde m’osservò per tutto il tempo con una perseveranza che mi divertì finché non seppi quali pensieri si movessero in quella piccola testa.

      La conversazione non fu subito molto divertente. La signora, come tutte le persone bene educate, era abbastanza noiosa ad un primo incontro. Mi domandava anche troppe notizie dell’amico che si fingeva m’avesse introdotto in quella casa e di cui io non ricordavo neppure il nome di battesimo.

      Entrarono finalmente Ada e Alberta. Respirai: erano belle ambedue e portavano in quel salotto la luce che fino ad allora vi aveva mancato. Ambedue brune e alte e slanciate, ma molto differenti l’una dall’altra. Non era una scelta difficile quella che avevo da fare. Alberta aveva allora non più di diciasett’anni. Come la madre essa aveva – benché bruna – la pelle rosea e trasparente, ciò che aumentava l’infantilità del suo aspetto. Ada, invece, era già una donna con i suoi occhi serii in una faccia che per essere meglio nivea era un poco azzurra e la sua capigliatura ricca, ricciuta, ma accomodata con grazia e severità.

      È difficile di scoprire le origini miti di un sentimento divenuto poi tanto violento, ma io sono certo che da me mancò il cosidetto coup de foudre per Ada. Quel colpo di fulmine, però, fu sostituito dalla convinzione ch’ebbi immediatamente che quella donna fosse quella di cui abbisognavo e che doveva addurmi alla salute morale e fisica per la santa monogamia. Quando vi ripenso resto sorpreso che sia mancato quel colpo di fulmine e che vi sia stata invece quella convinzione. È noto che noi uomini non cerchiamo nella moglie le qualità che adoriamo e disprezziamo nell’amante. Sembra dunque ch’io non abbia subito vista tutta la grazia e tutta la bellezza di Ada e che mi sia invece incantato ad ammirare altre qualità ch’io le attribuii di serietà e anche di energia, insomma, un po’ mitigate, le qualità ch’io amavo nel padre suo. Visto che poi credetti (come credo ancora) di non essermi sbagliato e che tali qualità Ada da fanciulla avesse possedute, posso ritenermi un buon osservatore ma un buon osservatore alquanto cieco. Quella prima volta io guardai Ada con un solo desiderio: quello di innamorarmene perché bisognava passare per di là per sposarla. Mi vi accinsi con quell’energia ch’io sempre dedico alle mie pratiche igieniche. Non so dire quando vi riuscii; forse già nel tempo relativamente piccolo di quella prima visita.

      Giovanni doveva aver parlato molto di me alle figliuole sue. Esse sapevano, fra altro, ch’ero passato nei miei studii dalla facoltà di legge a quella di chimica per ritornare – pur troppo! – alla prima. Cercai di spiegare: era certo che quando ci si rinchiudeva in una facoltà, la parte maggiore dello scibile restava coperta dall’ignoranza. E dicevo:

      – Se ora su di me non incombesse la serietà della vita, – e non dissi che tale serietà io la sentivo da poco tempo, dacché avevo risolto di sposarmi – io sarei passato ancora di facoltà in facoltà.

      Poi, per far ridere, dissi ch’era curioso ch’io abbandonassi una facoltà proprio al momento di dare gli esami.

      – Era un caso – dicevo col sorriso di chi vuol far credere che stia dicendo una bugia. E invece era vero ch’io avevo cambiato di studii nelle più varie stagioni.

      Partii così alla conquista di Ada e continuai sempre nello sforzo di farla ridere di me e alle spalle mie dimenticando ch’io l’avevo prescelta per la sua serietà. Io sono un po’ bizzarro, ma a lei dovetti apparire veramente squilibrato. Non tutta la colpa è mia e lo si vede dal fatto che Augusta e Alberta, ch’io non avevo prescelte, mi giudicarono altrimenti. Ma Ada, che proprio allora era tanto seria da girare intorno i begli occhi alla ricerca dell’uomo ch’essa avrebbe ammesso nel suo nido, era incapace di amare la persona che la faceva ridere. Rideva, rideva a lungo, troppo a lungo e il suo riso copriva di un aspetto ridicolo la persona che l’aveva provocato. La sua era una vera inferiorità e doveva finire col danneggiarla, ma danneggiò prima me. Se avessi saputo tacere a tempo forse le cose sarebbero andate altrimenti. Intanto le avrei lasciato il tempo perché parlasse lei, mi si rivelasse e potessi guardarmene.

      Le quattro fanciulle erano sedute sul piccolo sofà sul quale stavano a stento ad onta che Anna sedesse sulle ginocchia di Augusta. Erano belle così insieme. Lo constatai con un’intima soddisfazione vedendo ch’ero avviato magnificamente all’ammirazione e all’amore. Veramente belle! Il colore sbiadito di Augusta serviva a dare rilievo al color bruno delle capigliature delle altre.

      Io avevo parlato dell’Università e Alberta, che stava facendo il penultimo anno del ginnasio, raccontò dei suoi studii. Si lamentò che il latino le riusciva molto difficile. Dissi di non meravigliarmene perché era una lingua che non faceva per le donne, tanto ch’io pensavo che già dagli antichi romani le donne avessero parlato l’italiano. Invece per me – asserii – il latino aveva rappresentata la materia prediletta. Poco dopo

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