La coscienza di Zeno. Italo Svevo

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La coscienza di Zeno - Italo  Svevo

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parte quelle storielle erano vere. Non so più dire in quanta parte perché avendole raccontate a tante altre donne prima che alle figlie del Malfenti, esse, senza ch’io lo volessi, si alterarono per divenire più espressive. Erano vere dal momento che io non avrei più saputo raccontarle altrimenti. Oggidì non m’importa di provarne la verità. Non vorrei disingannare Augusta che ama crederle di mia invenzione. In quanto ad Ada io credo che ormai ella abbia cambiato di parere e le ritenga vere.

      Il mio totale insuccesso con Ada si manifestò proprio nel momento in cui giudicavo di dover finalmente parlar chiaro. Ne accolsi l’evidenza con sorpresa e dapprima con incredulità. Non era stata detta da lei una sola parola che avesse manifestata la sua avversione per me ed io intanto chiusi gli occhi per non vedere quei piccoli atti che non mi significavano una grande simpatia. Eppoi io stesso non avevo detta la parola necessaria e potevo persino figurarmi che Ada non sapesse ch’io ero là pronto per sposarla e potesse credere che io – lo studente bizzarro e poco virtuoso – volessi tutt’altra cosa.

      Il malinteso si prolungava sempre a causa di quelle mie intenzioni troppo decisamente matrimoniali. Vero è che oramai desideravo tutta Ada cui avevo continuato a levigare assiduamente le guancie, a impicciolire le mani e i piedi e ad isveltire e affinare la taglia. La desideravo quale moglie e quale amante. Ma è decisivo il modo con cui si avvicina per la prima volta una donna.

      Ora avvenne che per ben tre volte consecutive, in quella casa fossi ricevuto dalle altre due fanciulle. L’assenza di Ada fu scusata la prima volta con una visita doverosa, la seconda con un malessere e la terza non mi si disse alcuna scusa finché io, allarmato, non lo domandai. Allora Augusta, a cui per caso m’ero rivolto, non rispose. Rispose per lei Alberta ch’essa aveva guardata come per invocarne l’assistenza: Ada era andata da una zia.

      A me mancò il fiato. Era evidente che Ada mi evitava. Il giorno prima ancora io avevo sopportata la sua assenza ed avevo anzi prolungata la mia visita sperando ch’essa pur avrebbe finito coll’apparire. Quel giorno, invece, restai ancora per qualche istante, incapace di aprir bocca, eppoi protestando un improvviso male di testa m’alzai per andarmene. Curioso che quella prima volta il più forte sentimento che sentissi allo scontrarmi nella resistenza di Ada fosse di collera e sdegno! Pensai anche di appellarmi a Giovanni per mettere la fanciulla all’ordine. Un uomo che vuole sposarsi è anche capace di azioni simili, ripetizioni di quelle dei suoi antenati.

      Quella terza assenza di Ada doveva divenire anche più significativa. Il caso volle ch’io scoprissi ch’essa si trovava in casa, ma rinchiusa nella sua stanza.

      Devo prima di tutto dire che in quella casa v’era un’altra persona ch’io non ero riuscito a conquistare: la piccola Anna. Dinanzi agli altri essa non m’aggrediva più, perché l’avevano redarguita duramente. Anzi qualche volta anch’essa s’era accompagnata alle sorelle ed era stata a sentire le mie storielle. Quando però me ne andavo, essa mi raggiungeva alla soglia, gentilmente mi pregava di chinarmi a lei, si rizzava sulle punte dei piedini e quando arrivava a far addirittura aderire la boccuccia al mio orecchio, mi diceva abbassando la voce in modo da non poter essere udita che da me:

      – Ma tu sei pazzo, veramente pazzo!

      Il bello si è che dinanzi agli altri la sorniona mi dava del lei. Se c’era presente la signora Malfenti, essa subito si rifugiava nelle sue braccia, e la madre l’accarezzava dicendo:

      – Come la mia piccola Anna s’è fatta gentile! Nevvero?

      Non protestavo e la gentile Anna mi diede ancora spesso allo stesso modo del pazzo. Io accoglievo la sua dichiarazione con un sorriso vile che avrebbe potuto sembrare di ringraziamento. Speravo che la bambina non avesse il coraggio di raccontare delle sue aggressioni agli adulti e mi dispiaceva di far sapere ad Ada quale giudizio facesse di me la sua sorellina. Quella bambina finì realmente coll’imbarazzarmi. Se, quando parlavo con gli altri, il mio occhio s’incontrava nel suo, subito dovevo trovare il modo di guardare altrove ed era difficile di farlo con naturalezza. Certo arrossivo. Mi pareva che quell’innocente col suo giudizio potesse danneggiarmi. Le portai dei doni, ma non valsero ad ammansarla. Essa dovette accorgersi del suo potere e della mia debolezza e, in presenza degli altri, mi guardava indagatrice, insolente. Credo che tutti abbiamo nella nostra coscienza come nel nostro corpo dei punti delicati e coperti cui non volentieri si pensa. Non si sa neppure che cosa sieno, ma si sa che vi sono. Io stornavo il mio occhio da quello infantile che voleva frugarmi.

      Ma quel giorno in cui solo e abbattuto uscivo da quella casa e ch’essa mi raggiunse per farmi chinare a sentire il solito complimento, mi piegai a lei con tale faccia stravolta di vero pazzo e tesi verso di lei con tanta minaccia le mani contratte ad artigli, ch’essa corse via piangendo ed urlando.

      Così arrivai a vedere Ada anche quel giorno perché fu lei che accorse a quei gridi. La piccina raccontò singhiozzando ch’io l’avevo minacciata duramente perché essa m’aveva dato del pazzo:

      – Perché egli è un pazzo ed io voglio dirglielo. Cosa c’è di male?

      Non stetti a sentire la bambina, stupito di vedere che Ada si trovava in casa. Le sue sorelle avevano dunque mentito, anzi la sola Alberta cui Augusta ne aveva passato l’incarico esimendosene essa stessa! Per un istante fui esattamente nel giusto indovinando tutto. Dissi ad Ada:

      – Ho piacere di vederla. Credevo si trovasse da tre giorni da sua zia.

      Ella non mi rispose perché dapprima si piegò sulla bambina piangente. Quell’indugio di ottenere le spiegazioni cui credevo di aver diritto mi fece salire veemente il sangue alla testa. Non trovavo parole. Feci un altro passo per avvicinarmi alla porta d’uscita e se Ada non avesse parlato, io me ne sarei andato e non sarei ritornato mai più. Nell’ira mi pareva cosa facilissima quella rinunzia ad un sogno che aveva oramai durato tanto a lungo.

      Ma intanto essa, rossa, si volse a me e disse ch’era rientrata da pochi istanti non avendo trovata la zia in casa.

      Bastò per calmarmi. Com’era cara, così maternamente piegata sulla bambina che continuava ad urlare! Il suo corpo era tanto flessibile che pareva divenuto più piccolo per accostarsi meglio alla piccina. Mi indugiai ad ammirarla considerandola di nuovo mia.

      Mi sentii tanto sereno che volli far dimenticare il risentimento che poco prima avevo manifestato e fui gentilissimo con Ada ed anche con Anna. Dissi ridendo di cuore:

      – Mi dà tanto spesso del pazzo che volli farle vedere la vera faccia e l’atteggiamento del pazzo. Voglia scusarmi! Anche tu, povera Annuccia, non aver paura perché io sono un pazzo buono.

      Anche Ada fu molto, ma molto gentile. Redarguì la piccina che continuava a singhiozzare e mi domandò scusa per essa. Se avessi avuta la fortuna che Anna nell’ira fosse corsa via, io avrei parlato. Avrei detta una frase che forse si trova anche in qualche grammatica di lingue straniere, bell’e fatta per facilitare la vita a chi non conosca la lingua del paese ove soggiorna: «Posso domandare la sua mano a suo padre?». Era la prima volta ch’io volevo sposarmi e mi trovavo perciò in un paese del tutto sconosciuto. Fino ad allora avevo trattato altrimenti con le donne con cui avevo avuto a fare. Le avevo assaltate mettendo loro prima di tutto addosso le mani.

      Ma non arrivai a dire neppure quelle poche parole. Dovevano pur stendersi su un certo spazio di tempo! Dovevano esser accompagnate da un’espressione supplice della faccia, difficile a foggiarsi immediatamente dopo la mia lotta con Anna ed anche con Ada, e dal fondo del corridoio s’avanzava già la signora Malfenti richiamata dalle strida della bambina.

      Stesi la mano ad Ada, che mi porse subito cordialmente la sua e le dissi:

      – Arrivederci domani. Mi scusi con la signora.

      Esitai però di lasciar andare quella mano che riposava fiduciosa nella mia. Sentivo che,

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