La coscienza di Zeno. Italo Svevo

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La coscienza di Zeno - Italo  Svevo

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tre volte alla settimana.

      È certo che se mi avesse detto rudemente di andarmene e di non ritornare più, io, sempre diretto dal mio proposito, avrei supplicato che mi si tollerasse in quella casa, almeno per uno o due giorni ancora, per chiarire i miei rapporti con Ada. Invece le sue parole, più miti di quanto avessi temuto, mi diedero il coraggio di manifestare il mio risentimento:

      – Ma se lei lo desidera, io in questa casa non riporrò più piede!

      Venne quello che avevo sperato. Essa protestò, riparlò della stima di tutti loro e mi supplicò di non essere adirato con lei. Ed io mi dimostrai magnanimo, le promisi tutto quello ch’essa volle e cioè di astenermi dal venire in quella casa per un quattro o cinque giorni, di ritornarvi poi con una certa regolarità ogni settimana due o tre volte e, sopra tutto, di non tenerle rancore.

      Fatte tali promesse, volli dar segno di tenerle e mi levai per allontanarmi. La signora protestò ridendo:

      – Con me non c’è poi compromissione di sorta e può rimanere.

      E poiché io pregavo di lasciarmi andare per un impegno di cui solo allora m’ero ricordato, mentre era vero che non vedevo l’ora di essere solo per riflettere meglio alla straordinaria avventura che mi toccava, la signora mi pregò addirittura di rimanere dicendo che così le avrei data la prova di non essere adirato con lei. Perciò rimasi, sottoposto continuamente alla tortura di ascoltare il vuoto cicaleccio cui la signora ora s’abbandonava sulle mode femminili ch’essa non voleva seguire, sul teatro e anche sul tempo tanto secco con cui la primavera s’annunziava.

      Poco dopo fui contento d’essere rimasto perché m’avvidi che avevo bisogno di un ulteriore chiarimento. Senz’alcun riguardo interruppi la signora, di cui non sentivo più le parole, per domandarle:

      – E tutti in famiglia sapranno che lei m’ha invitato a tenermi lontano da questa casa?

      Parve dapprima ch’essa neppure avesse ricordato il nostro patto. Poi protestò:

      – Lontano da questa casa? Ma solo per qualche giorno, intendiamoci. Io non ne dirò a nessuno, neppure a mio marito ed anzi le sarei grata se anche lei volesse usare la stessa discrezione.

      Anche questo promisi, promisi anche che se mi fosse stata chiesta una spiegazione perché non mi si vedesse più tanto di spesso, avrei addotti dei pretesti varii. Per il momento prestai fede alle parole della signora e mi figurai che Ada potesse essere stupita e addolorata dalla mia improvvisa assenza. Un’immagine gradevolissima!

      Poi rimasi ancora, sempre aspettando che qualche altra ispirazione venisse a dirigermi ulteriormente, mentre la signora parlava dei prezzi dei commestibili nell’ultimo tempo divenuti onerosissimi.

      Invece di altre ispirazioni, capitò la zia Rosina, una sorella di Giovanni, più vecchia di lui, ma di lui molto meno intelligente. Aveva però qualche tratto della sua fisonomia morale bastevole a caratterizzarla quale sua sorella. Prima di tutto la stessa coscienza dei proprii diritti e dei doveri altrui alquanto comica, perché priva di qualsiasi arma per imporsi, eppoi anche il vizio di alzare presto la voce. Essa credeva di aver tanti diritti nella casa del fratello che – come appresi poi – per lungo tempo considerò la signora Malfenti quale un’intrusa. Era nubile e viveva con un’unica serva di cui parlava sempre come della sua più grande nemica. Quando morì raccomandò a mia moglie di sorvegliare la casa finché la serva che l’aveva assistita non se ne fosse andata. Tutti in casa di Giovanni la sopportavano temendo la sua aggressività.

      Ancora non me ne andai. Zia Rosina prediligeva Ada fra le nipoti. Mi venne il desiderio di conquistarmene l’amicizia anch’io e cercai una frase amabile a indirizzarle. Mi ricordai oscuramente che l’ultima volta in cui l’avevo vista (cioè intravvista, perché allora non avevo sentito il bisogno di guardarla) le nipoti, non appena essa se ne era andata, avevano osservato che non aveva una buona cera. Anzi una di esse aveva detto:

      – Si sarà guastato il sangue per qualche rabbia con la serva!

      Trovai quello che cercavo. Guardando affettuosamente il faccione grinzoso della vecchia signora, le dissi:

      – La trovo molto rimessa, signora.

      Non avessi mai detta quella frase. Mi guardò stupita e protestò:

      – Io sono sempre uguale. Da quando mi sarei rimessa?

      Voleva sapere quando l’avessi vista l’ultima volta. Non ricordavo esattamente quella data e dovetti ricordarle che avevamo passato un intero pomeriggio insieme, seduti in quello stesso salotto con le tre signorine, ma non dalla parte dove eravamo allora, dall’altra. Io m’ero proposto di dimostrarle dell’interessamento, ma le spiegazioni ch’essa esigeva lo facevano durare troppo a lungo. La mia falsità mi pesava producendomi un vero dolore.

      La signora Malfenti intervenne sorridendo:

      – Ma lei non voleva mica dire che zia Rosina è ingrassata?

      Diavolo! Là stava la ragione del risentimento di zia Rosina ch’era molto grossa come il fratello e sperava tuttavia di dimagrire.

      – Ingrassata! Mai più! Io volevo parlare solo della cera migliore della signora.

      Tentavo di conservare un aspetto affettuoso e dovevo invece trattenermi per non dirle un’insolenza.

      Zia Rosina non parve soddisfatta neppur allora. Essa non era mai stata male nell’ultimo tempo e non capiva perché avesse dovuto apparire malata. E la signora Malfenti le diede ragione:

      – Anzi, è una sua caratteristica di non mutare di cera – disse rivolta a me. – Non le pare?

      A me pareva. Era anzi evidente. Me ne andai subito. Porsi con grande cordialità la mano a zia Rosina sperando di rabbonirla, ma essa mi concedette la sua guardando altrove.

      Non appena ebbi varcata la soglia di quella casa il mio stato d’animo mutò. Che liberazione! Non avevo più da studiare le intenzioni della signora Malfenti né di forzarmi di piacere alla zia Rosina. Credo in verità che se non ci fosse stato il rude intervento di zia Rosina, quella politicona della signora Malfenti avrebbe raggiunto perfettamente il suo scopo ed io mi sarei allontanato da quella casa tutto contento di essere stato trattato bene. Corsi saltellando giù per le scale. Zia Rosina era stata quasi un commento della signora Malfenti. La signora Malfenti m’aveva proposto di restar lontano dalla sua casa per qualche giorno. Troppo buona la cara signora! Io l’avrei compiaciuta al di là delle sue aspettative e non m’avrebbe rivisto mai più! M’avevano torturato, lei, la zia ed anche Ada! Con quale diritto? Perché avevo voluto sposarmi? Ma io non ci pensavo più! Com’era bella la libertà!

      Per un buon quarto d’ora corsi per le vie accompagnato da tanto sentimento. Poi sentii il bisogno di una libertà ancora maggiore. Dovevo trovare il modo di segnare in modo definitivo la mia volontà di non rimettere più il piede in quella casa. Scartai l’idea di scrivere una lettera con la quale mi sarei congedato. L’abbandono diveniva più sdegnoso ancora se non ne comunicavo l’intenzione. Avrei semplicemente dimenticato di vedere Giovanni e tutta la sua famiglia.

      Trovai l’atto discreto e gentile e perciò un po’ ironico col quale avrei segnata la mia volontà. Corsi da un fioraio e scelsi un magnifico mazzo di fiori che indirizzai alla signora Malfenti accompagnato dal mio biglietto da visita sul quale non scrissi altro che la data. Non occorreva altro. Era una data che non avrei dimenticata più e non l’avrebbero dimenticata forse neppure Ada e sua madre: 5 Maggio, anniversario della morte di Napoleone.

      Provvidi in fretta a quell’invio. Era importantissimo che giungesse il giorno stesso.

      Ma

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