La coscienza di Zeno. Italo Svevo
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Corsi al mio studio per riflettere e per rinchiudermi. Se avessi ceduto alla mia dolorosa impazienza, subito sarei ritornato di corsa a quella casa a rischio di arrivarvi prima del mio mazzo di fiori. I pretesti non potevano mancare. Potevo anche averci dimenticato il mio ombrello!
Non volli fare una cosa simile. Con l’invio di quel mazzo di fiori io avevo assunta una bellissima attitudine che bisognava conservare. Dovevo ora stare fermo, perché la prossima mossa toccava a loro.
Il raccoglimento ch’io mi procurai nel mio studiolo e da cui m’aspettavo un sollievo, chiarì solo le ragioni della mia disperazione che s’esasperò fino alle lagrime. Io amavo Ada! Non sapevo ancora se quel verbo fosse proprio e continuai l’analisi. Io la volevo non solo mia, ma anche mia moglie. Lei, con quella sua faccia marmorea sul corpo acerbo, eppoi ancora lei con la sua serietà, tale da non intendere il mio spirito che non le avrei insegnato, ma cui avrei rinunziato per sempre, lei che m’avrebbe insegnata una vita d’intelligenza e di lavoro. Io la volevo tutta e tutto volevo da lei. Finii col conchiudere che il verbo fosse proprio quello: Io amavo Ada.
Mi parve di aver pensata una cosa molto importante che poteva guidarmi. Via le esitazioni! Non importava più di sapere se ella mi amasse. Bisognava tentare di ottenerla e non occorreva più parlare con lei se Giovanni poteva disporne. Prontamente bisognava chiarire tutto per arrivare subito alla felicità o altrimenti dimenticare tutto e guarire. Perché avevo da soffrire tanto nell’attesa? Quando avessi saputo – e potevo saperlo solo da Giovanni – che io definitivamente avevo perduta Ada, almeno non avrei più dovuto lottare col tempo che sarebbe continuato a trascorrere lentamente senza ch’io sentissi il bisogno di sospingerlo. Una cosa definitiva è sempre calma perché staccata dal tempo.
Corsi subito in cerca di Giovanni. Furono due le corse. Una verso il suo ufficio situato in quella via che noi continuiamo a dire delle Case Nuove, perché così facevano i nostri antenati. Alte vecchie case che offuscano una via tanto vicina alla riva del mare poco frequentata all’ora del tramonto, e dove potei procedere rapido. Non pensai, camminando, che a preparare più brevemente che fosse possibile la frase che dovevo dirigergli. Bastava dirgli la mia determinazione di sposare sua figlia. Non avevo né da conquiderlo né da convincerlo. Quell’uomo d’affari avrebbe saputa la risposta da darmi non appena intesa la mia domanda. Mi preoccupava tuttavia la quistione se in un’occasione simile avrei dovuto parlare in lingua o in dialetto.
Ma Giovanni aveva già abbandonato l’ufficio e s’era recato al Tergesteo. Mi vi avviai. Più lentamente perché sapevo che alla Borsa dovevo attendere più tempo per potergli parlare da solo a solo. Poi, giunto in via Cavana, dovetti rallentare per la folla che ostruiva la stretta via. E fu proprio battendomi per passare traverso a quella folla, che ebbi finalmente come in una visione la chiarezza che da tante ore cercavo. I Malfenti volevano ch’io sposassi Augusta e non volevano ch’io sposassi Ada e ciò per la semplice ragione che Augusta era innamorata di me e Ada niente affatto. Niente affatto perché altrimenti non sarebbero intervenuti a dividerci. M’avevano detto ch’io compromettevo Augusta, ma era invece lei che si comprometteva amandomi. Compresi tutto in quel momento, con viva chiarezza, come se qualcuno della famiglia me l’avesse detto. E indovinai anche che Ada era d’accordo ch’io fossi allontanato da quella casa. Essa non m’amava e non m’avrebbe amato almeno finché la sorella sua m’avesse amato. Nell’affollata via Cavana avevo dunque pensato più dirittamente che nel mio studio solitario.
Oggidì, quando ritorno al ricordo di quei cinque giorni memorandi che mi condussero al matrimonio, mi stupisce il fatto che il mio animo non si sia mitigato all’apprendere che la povera Augusta mi amava. Io, ormai scacciato da casa Malfenti, amavo Ada irosamente. Perché non mi diede alcuna soddisfazione la visione chiara che la signora Malfenti m’aveva allontanato invano, perché io in quella casa rimanevo, e vicinissimo ad Ada, cioè nel cuore di Augusta? A me pareva invece una nuova offesa l’invito della signora Malfenti di non compromettere Augusta e cioè di sposarla. Per la brutta fanciulla che m’amava, avevo tutto il disdegno che non ammettevo avesse per me la sua bella sorella, che io amavo.
Accelerai ancora il passo, ma deviai e mi diressi verso casa mia. Non avevo più bisogno di parlare con Giovanni perché sapevo ormai chiaramente come condurmi; con un’evidenza tanto disperante che forse finalmente m’avrebbe data la pace staccandomi dal tempo troppo lento. Era anche pericoloso parlarne con quel maleducato di Giovanni. La signora Malfenti aveva parlato in modo ch’io non l’avevo intesa che là in via Cavana. Il marito era capace di comportarsi altrimenti. Forse m’avrebbe detto addirittura: «Perché vuoi sposare Ada? Vediamo! Non faresti meglio di sposare Augusta?». Perché egli aveva un assioma che ricordavo e che avrebbe potuto guidarlo in questo caso: «Devi sempre spiegare chiaramente l’affare al tuo avversario perché allora appena sarai sicuro d’intenderlo meglio di lui!». E allora? Ne sarebbe conseguita un’aperta rottura. Solo allora il tempo avrebbe potuto camminare come voleva, perché io non avrei più avuta alcuna ragione d’ingerirmene: sarei arrivato al punto fermo!
Ricordai anche un altro assioma di Giovanni e mi vi attaccai perché mi procurava una grande speranza. Seppi restarvi attaccato per cinque giorni, per quei cinque giorni che convertirono la mia passione in malattia. Giovanni soleva dire che non bisogna aver fretta di arrivare alla liquidazione di un affare quando da questa liquidazione non si può attendersi un vantaggio: ogni affare arriva prima o poi da sé alla liquidazione, come lo prova il fatto che la storia del mondo è tanto lunga e che tanto pochi affari sono rimasti in sospeso. Finché non si è proceduti alla sua liquidazione, ogni affare può ancora evolversi vantaggiosamente.
Non ricordai che v’erano altri assiomi di Giovanni che dicevano il contrario e m’attaccai a quello. Già a qualche cosa dovevo pur attaccarmi. Feci il proposito ferreo di non movermi finché non avessi appreso che qualche cosa di nuovo avesse fatto evolvere il mio affare in mio favore. E ne ebbi tale danno che forse per questo, in seguito, nessun mio proposito m’accompagnò per tanto tempo.
Non appena fatto il proposito, ricevetti un biglietto dalla signora Malfenti. Ne riconobbi la scrittura sulla busta e, prima di aprirlo, mi lusingai fosse bastato quel mio proposito ferreo, perché essa si pentisse di avermi maltrattato e mi corresse dietro. Quando trovai che non conteneva che le lettere p. r. che significavano il ringraziamento per i fiori che le avevo inviati, mi disperai, mi gettai sul mio letto e ficcai i denti nel guanciale quasi per inchiodarmivi e impedirmi di correr via a rompere il mio proposito. Quanta ironica serenità risultava da quelle iniziali! Ben maggiore di quella espressa dalla data ch’io avevo apposta al mio biglietto e che significava già un proposito e forse anche un rimprovero. Remember aveva detto Carlo I. prima che gli tagliassero il collo e doveva aver pensata la data di quel giorno! Anch’io avevo esortata la mia avversaria a ricordare e temere!
Furono cinque giorni e cinque notti terribili ed io ne sorvegliai le albe e i tramonti che significavano fine e principio e avvicinavano l’ora della mia libertà, la libertà di battermi di nuovo per il mio amore.
Mi preparavo a quella lotta. Oramai sapevo come la mia fanciulla voleva io fossi fatto. M’è facile di ricordarmi dei propositi che feci allora, prima di tutto perché ne feci d’identici in epoca più recente, eppoi perché li annotai su un foglio di carta che conservo tuttora. Mi proponevo di diventare più serio. Ciò significava allora di non raccontare quelle barzellette che facevano ridere e mi diffamavano, facendomi anche amare dalla brutta Augusta e disprezzare dalla mia Ada. Poi v’era il proponimento di essere ogni mattina alle otto nel mio ufficio che non vedevo da tanto tempo, non per discutere sui miei diritti con l’Olivi, ma per lavorare con lui e poter assumere a suo tempo la direzione dei miei affari. Ciò doveva essere attuato in un’epoca più tranquilla di quella, come dovevo anche cessar di fumare più tardi, cioè quando avessi riavuta la mia libertà, perché non bisognava peggiorare quell’orribile intervallo. Ad Ada spettava un marito perfetto. Perciò v’erano anche varii proponimenti di dedicarmi a letture serie, eppoi di passare ogni giorno