La coscienza di Zeno. Italo Svevo
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– Dodici ore! – commentò Tullio, e con un sorriso soddisfatto, mi concedette quello che ambivo, la sua commiserazione: – Non sei mica da invidiare, tu!
La conclusione era esatta ed io ne fui tanto commosso che dovetti lottare per non lasciar trapelare le lagrime. Mi sentii più infelice che mai e, in quel morbido stato di compassione di me stesso, si capisce io sia stato esposto a delle lesioni.
Tullio s’era rimesso a parlare della sua malattia ch’era anche la sua principale distrazione. Aveva studiato l’anatomia della gamba e del piede. Mi raccontò ridendo che quando si cammina con passo rapido, il tempo in cui si svolge un passo non supera il mezzo secondo e che in quel mezzo secondo si movevano nientemeno che cinquantaquattro muscoli. Trasecolai e subito corsi col pensiero alle mie gambe a cercarvi la macchina mostruosa. Io credo di avercela trovata. Naturalmente non riscontrai i cinquantaquattro ordigni, ma una complicazione enorme che perdette il suo ordine dacché io vi ficcai la mia attenzione.
Uscii da quel caffè zoppicando e per alcuni giorni zoppicai sempre. Il camminare era per me divenuto un lavoro pesante, e anche lievemente doloroso. A quel groviglio di congegni pareva mancasse ormai l’olio e che, movendosi, si ledessero a vicenda. Pochi giorni appresso, fui colto da un male più grave di cui dirò e che diminuì il primo. Ma ancora oggidì, che ne scrivo, se qualcuno mi guarda quando mi movo, i cinquantaquattro movimenti s’imbarazzano ed io sono in procinto di cadere.
Anche questa lesione io la devo ad Ada. Molti animali diventano preda dei cacciatori o di altri animali quando sono in amore. Io fui allora preda della malattia e sono certo che se avessi appreso della macchina mostruosa in altro momento, non ne avrei avuto alcun danno.
Qualche segno su un foglio di carta che conservai, mi ricorda un’altra strana avventura di quei giorni. Oltre all’annotazione di un’ultima sigaretta accompagnata dall’espressione della fiducia di poter guarire della malattia dei cinquantaquattro movimenti, v’è un tentativo di poesia… su una mosca. Se non sapessi altrimenti, crederei che quei versi provengano da una signorina dabbene che dà del tu agl’insetti di cui canta, ma visto che sono stati stesi da me, devo credere che poiché io sono passato per di là, tutti possano capitare dappertutto.
Ecco come quei versi nacquero. A tarda notte ero ritornato a casa e invece che coricarmi m’ero recato nel mio studiolo ove avevo acceso il gas. Alla luce una mosca si mise a tormentarmi. Riuscii a darle un colpo, lieve però per non insudiciarmi. La dimenticai, ma poi la rividi in mezzo al tavolo come lentamente si rimetteva. Era ferma, eretta e pareva più alta di prima perché una delle sue zampine era stata anchilosata e non poteva flettersi. Con le due zampine posteriori si lisciava assiduamente le ali. Tentò di moversi, ma si ribaltò sulla schiena. Si rizzò e ritornò ostinata al suo assiduo lavoro.
Scrissi allora quei versi, stupito di aver scoperto che quel piccolo organismo pervaso da tanto dolore, fosse diretto nel suo sforzo immane da due errori: prima di tutto lisciando con tanta ostinazione le ali che non erano lese, l’insetto rivelava di non sapere da quale organo venisse il suo dolore; poi l’assiduità del suo sforzo dimostrava che c’era nella sua minuscola mente la fede fondamentale che la salute spetti a tutti e che debba certamente ritornare quando ci ha lasciato. Erano errori che si possono facilmente scusare in un insetto che non vive che la vita di una sola stagione, e non ha tempo di far dell’esperienza.
Ma venne la domenica. Scadeva il quinto giorno dalla mia ultima visita in casa Malfenti. Io, che lavoro tanto poco, conservai sempre un grande rispetto per il giorno festivo che divide la vita in periodi brevi che la rendono più sopportabile. Quel giorno festivo chiudeva anche una mia settimana faticosa e me ne competeva la gioia. Io non cambiai per nulla i miei piani ma per quel giorno non dovevano valere ed io avrei rivista Ada. Non avrei compromessi quei piani con alcuna parola, ma dovevo rivederla perché c’era anche la possibilità che l’affare si fosse già cambiato in mio favore ed allora sarebbe stato un bel danno di continuar a soffrire senza scopo.
Perciò, a mezzodì, con la fretta che le mie povere gambe mi concedevano, corsi in città e sulla via che sapevo la signora Malfenti e le figliuole dovevano percorrere al ritorno dalla messa. Era una festa piena di sole e, camminando, pensai che forse in città m’aspettava la novità attesa, l’amore di Ada!
Non fu così, ma per un altro istante n’ebbi l’illusione. La fortuna mi favorì in modo incredibile. M’imbattei faccia a faccia in Ada, nella sola Ada. Mi mancò il passo e il fiato. Che fare? Il mio proponimento avrebbe voluto che mi tirassi in disparte e la lasciassi passare con un saluto misurato. Ma nella mia mente ci fu un po’ di confusione perché prima c’erano stati altri proponimenti tra cui uno che ricordavo secondo il quale avrei dovuto parlarle chiaro e apprendere dalla sua bocca il mio destino. Non mi trassi in disparte e quand’ella mi salutò come se ci fossimo lasciati cinque minuti prima, io m’accompagnai a lei.
Ella mi aveva detto:
– Buon giorno, signor Cosini! Ho un po’ fretta.
Ed io:
– Mi permette di accompagnarla per un tratto?
Ella accettò sorridendo. Ma dunque avrei dovuto parlarle? Ella aggiunse che andava direttamente a casa sua, perciò compresi che non avevo a disposizione che cinque minuti per parlare ed anche di quel tempo ne perdetti una parte a calcolare se sarebbe bastato per le cose importanti che dovevo dirle. Meglio non dirle che non dirle interamente. Mi confondeva anche il fatto che allora nella nostra città, per una fanciulla, era già un’azione compromettente quella di lasciarsi accompagnare sulla via da un giovanotto. Ella me lo permetteva. Non potevo già accontentarmi? Intanto la guardavo, tentando di sentir di nuovo intero il mio amore annebbiatosi nell’ira e nel dubbio. Riavrei almeno i miei sogni? Ella m’appariva piccola e grande nello stesso tempo, nell’armonia delle sue linee. I sogni ritornavano in folla anche accanto a lei, reale. Era il mio modo di desiderare e vi ritornai con gioia intensa. Spariva dal mio animo qualunque traccia d’ira o di rancore.
Ma dietro di noi si sentì un’invocazione esitante:
– Se permette, signorina!
Mi volsi indignato. Chi osava interrompere le spiegazioni che non avevo ancora iniziate? Un signorino imberbe, bruno e pallido, la guardava con occhi ansiosi. A mia volta guardai Ada nella folle speranza ch’essa invocasse il mio aiuto. Sarebbe bastato un suo segno ed io mi sarei gettato su quell’individuo a domandargli ragione della sua audacia. E magari avesse insistito. I miei mali sarebbero stati guariti subito se mi fosse stato concesso d’abbandonarmi ad un atto brutale di forza.
Ma Ada non fece quel segno. Con un sorriso spontaneo perché mutava lievemente il disegno delle guancie e della bocca ma anche la luce dell’occhio, ella gli stese la mano:
– Il signor Guido!
Quel prenome mi fece male. Ella, poco prima, mi aveva chiamato col nome mio di famiglia.
Guardai meglio quel signor Guido. Era vestito con un’eleganza ricercata e teneva nella destra inguantata un bastone dal manico d’avorio lunghissimo, che io non avrei portato neppure se m’avessero pagato perciò una somma per ogni chilometro. Non mi rimproverai di aver potuto vedere in una simile persona una minaccia per Ada. Vi sono dei loschi figuri che vestono elegantemente e portano anche di tali bastoni.
Il sorriso di Ada mi ricacciò nei più comuni rapporti mondani. Ada fece la presentazione. E sorrisi anch’io! Il sorriso di Ada ricordava un poco l’increspatura di un’acqua limpida sfiorata da una lieve brezza. Anche il mio ricordava un simile movimento, ma prodotto da un sasso che fosse stato gettato nell’acqua.
Si chiamava