Odi barbare. Giosue Carducci

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Odi barbare - Giosue  Carducci

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iosuè Carducci

      ODI BARBARE

      PRELUDIO

      Odio l’usata poesia: concede

      comoda al vulgo i flosci fianchi e senza

      palpiti sotto i consueti amplessi

      stendesi e dorme.

      A me la strofe vigile, balzante

      co ‘l plauso e ‘l piede ritmico ne’ cori:

      per l’ala a volo io còlgola, si volge

      ella e repugna.

      Tal fra le strette d’amator silvano

      torcesi un’evia su ‘l nevoso Edone:

      piú belli i vezzi del fiorente petto

      saltan compressi,

      e baci e strilli su l’accesa bocca

      mesconsi: ride la marmorea fronte

      al sole, effuse in lunga onda le chiome

      fremono a’ venti.

      DELLE ODI BARBARE. LIBRO I

      IDEALE

      Poi che un sereno vapor d’ambrosia

      da la tua coppa diffuso avvolsemi,

      o Ebe con passo di dea

      trasvolata sorridendo via;

      non piú del tempo l’ombra o de l’algide

      cure su ‘l capo mi sento; sentomi,

      o Ebe, l’ellenica vita

      tranquilla ne le vene fluire.

      E i ruinati giú pe ‘l declivio

      de l’età mesta giorni risursero,

      o Ebe, nel tuo dolce lume

      agognanti di rinnovellare;

      e i novelli anni da la caligine

      volenterosi la fronte adergono,

      o Ebe, al tuo raggio che sale

      tremolando e roseo li saluta.

      A gli uni e gli altri tu ridi, nitida

      stella, da l’alto. Tale ne i gotici

      delúbri, tra candide e nere

      cuspidi rapide salïenti

      con doppia al cielo fila marmorea,

      sta su l’estremo pinnacol placida

      la dolce fanciulla di Jesse

      tutta avvolta di faville d’oro.

      Le ville e il verde piano d’argentei

      fiumi rigato contempla aerea,

      le messi ondeggianti ne’ campi,

      le raggianti sopra l’alpe nevi:

      a lei d’intorno le nubi volano;

      fuor de le nubi ride ella fulgida

      a l’albe di maggio fiorenti,

      a gli occasi di novembre mesti.

      ALL’AURORA

      Tu sali e baci, o dea, co ‘l rosëo fiato le nubi,

      baci de’ marmorëi templi le fosche cime.

      Ti sente e con gelido fremito destasi il bosco,

      spiccasi il falco a volo su con rapace gioia;

      mentre ne l’umida foglia pispigliano garruli i nidi,

      e grigio urla il gabbiano su ‘l vïolaceo mare.

      Primi nel pian faticoso di te s’allegrano i fiumi

      tremuli luccicando tra ‘l mormorar de’ pioppi:

      corre da i paschi baldo vèr’ l’alte fluenti il poledro

      sauro, dritto il chiomante capo, nitrendo a’ venti:

      vigile da i tuguri risponde la forza de i cani

      e di gagliardi mugghi tutta la valle suona.

      Ma l’uom che tu svegli a oprar consumando la vita,

      te giovinetta antica, te giovinetta eterna

      ancor pensoso ammira, come già t’adoravan su ‘l monte

      ritti fra i bianchi armenti i nobili Aria padri.

      Ancor sovra l’ali del fresco mattino rivola

      l’inno che a te su l’aste disser poggiati i padri.

      – Pastorella del cielo, tu, frante a la suora gelosa

      le stalle, riadduci le rosse vacche in cielo.

      Guidi le rosse vacche, guidi tu il candido armento

      e le bionde cavalle care a i fratelli Asvini.

      Come giovine donna che va da i lavacri a lo sposo

      riflettendo ne gli occhi il desïato amore,

      tu sorridendo lasci caderti i veli leggiadri

      e le virginee forme scuopri serena a i cieli.

      Affocata le guance, ansante dal candido petto,

      corri al sovran de i mondi, al bel fiammante Suria,

      e il giungi, e in arco distendi le rosee braccia al gagliardo

      collo; ma tosto fuggi di quel tremendo i rai.

      Allora gli Asvini gemelli, cavalieri del cielo,

      rosea tremante accolgon te nel bel carro d’oro;

      e volgi verso dove, misurato il cammino di gloria,

      stanco ti cerchi il nume ne i mister de la sera.

      Deh propizia trasvola – cosí t’invocavano i padri —

      nel rosseggiante carro sopra le nostre case.

      Arriva da le plaghe d’orïente con la fortuna,

      con le fiorenti biade, con lo spumante latte;

      ed in mezzo a’ vitelli danzando con floride chiome

      molta prole t’adori, pastorella del cielo. —

      Cosí cantavano gli Aria. Ma piàcqueti meglio l’Imetto

      fresco di vénti rivi, che al ciel di timi odora:

      piàcquerti su l’Imetto i lesti cacciatori mortali

      prementi le rugiade co ‘l coturnato piede.

      Inchinaronsi i cieli, un dolce chiarore vermiglio

      ombrò la selva e il colle, quando scendesti, o dea.

      Non tu scendesti, o dea: ma Cefalo attratto al tuo bacio

      salía per l’aure lieve, bello come un bel dio.

      Su gli amorosi venti salía, tra soavi fragranze,

      tra le nozze de i fiori, tra gl’imenei de’ rivi.

      La chioma d’oro lenta irriga il collo, a l’omero bianco

      con un cinto vermiglio sta la faretra d’oro.

      Cadde l’arco su l’erbe; e Lèlapo immobil con erto

      il fido arguto muso mira salire il sire.

      Oh baci d’una dea fragranti tra la rugiada!

      oh ambrosia de l’amore nel giovinetto mondo!

      Ami

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