Una vita. Italo Svevo
Чтение книги онлайн.
Читать онлайн книгу Una vita - Italo Svevo страница 21
Lavorava bene ma lavorava poco. Ricorreva troppo di spesso col pensiero all’opera completa quando le frasi che ne aveva fatte si potevano contare sulle dita. Così, in sogno, vedeva aumentati i pregi di quest’opera che perché non ancora fatta non poteva essere stata danneggiata dalle resistenze della penna. Dopo qualche mese, vedendo che il risultato dei suoi sforzi era compreso tutto in quelle tre o quattro paginette di prefazione ove prometteva di fare e di provare ma ove nulla era fatto o provato, venne preso da un grande scoramento. Quelle pagine rappresentavano il lavoro di mesi perché altro in quel frattempo egli non aveva fatto. Non una sola volta aveva stancato il suo cervello con lo studio e quelle pagine erano il solo progresso che egli avesse fatto verso la sua meta. Era tanto poco che equivaleva ad una rinunzia tacita ad ogni ambizione.
Pigliava anche più legittimamente l’aspetto di rinunzia per il fatto incontestabile che alla banca egli si trovava meglio e che odiava meno quel lavoro che da bel principio aveva scoperto in antagonismo a quello intellettuale cui voleva dedicarsi. L’aiuto e l’esempio di Alchieri avevano cooperato a renderglielo meno odioso ma anche, riteneva, la cessazione quasi intera dell’attività più intelligente.
Per lungo tempo inutilmente tentò di ripigliare le letture alla biblioteca civica, magari lasciando per allora in disparte il suo lavoro filosofico. Una sera Sanneo lo sgridò per un errore da lui fatto. Per quanto dovesse riconoscere di meritare quei rimproveri, si irritò del modo, di una parola più brusca. Altre volte, se ne rammentava, si toglieva all’avvilimento in cui lo gettavano tali accidenti della vita d’impiegato, applicandosi con maggior fervore ai suoi studi che dovevano toglierlo alla sua posizione subalterna. Fu quel fatto che dopo lunga assenza lo portò di nuovo alla biblioteca.
Si dedicò alla lettura di un giornale bibliografico italiano. La lingua non gli obbediva e bisognava darsi esclusivamente a letture italiane. Lesse per un’ora circa con attenzione spontanea, era effetto della brutalità di Sanneo, una discussione sull’autenticità di certe lettere del Petrarca e quando cessò rimase soddisfatto, rimpiangendo i tempi passati che la stanchezza del suo cervello gli ricordava, un rimpianto forte come se da allora la sua vita avesse mutato di molto.
Quando alzò il capo si avvide che a lui dirimpetto sedeva Macario che lo fissava indeciso.
– Il signor Nitti! – disse costui quasi domandandolo; doveva avere la memoria labile. Poi però gli porse amichevolmente la mano.
Uscirono insieme.
– Ci viene spesso? – chiese Macario occupato anche questa volta a raddrizzare il soprabito, una lunga mantellina grigia dai grandi bottoni d’osso.
Alfonso con tutta disinvoltura rispose che veniva ogni sera e, tacitamente, si propose di fare in futuro della bugia una verità.
– Io da otto giorni, ed è peccato che sia la prima volta che ci vediamo – disse Macario gentilmente. Gli chiese che cosa studiasse.
– Letteratura! – confessò Alfonso esitante.
Era lieto di poterlo dire a Macario, ma esitava conoscendo e temendone lo spirito maldicente. Spiegò ch’era sua abitudine di studiare ogni giorno qualche ora per svagarsi del lavoro della giornata.
– E che cosa legge? – chiese Macario che lo guardava con sorpresa.
Trovava che Alfonso, ad onta del viso bronzino, aveva l’aspetto meno rustico di mesi prima. Parlava più disinvolto e, di più, Macario era abbastanza intelligente per comprenderlo, dinotava una certa superiorità di negare ogni importanza a degli studî fatti con regolarità.
Sapendo quanto disprezzo si avesse da certuni per filosofi e filosofia, Alfonso si astenne dal nominare i suoi autori prediletti e parlò soltanto di qualche critico. Macario doveva però accorgersi che aveva a fare con persona che si prendeva il lusso di giudizi propri e fu sorpreso di trovarlo alquanto maligno. Alfonso aveva i grandi entusiasmi per gli autori che a Macario non nominò.
Dal canto suo Alfonso seppe ben presto come fosse fatta la coltura di Macario. S’accorse con soddisfazione che ne veniva stimato tanto da indurlo a sottostare a qualche mal celata fatica per portare il discorso su quanto meglio conosceva onde poter fare con lui buona figura. Parlò di naturalisti moderni. Alfonso aveva letto qualche loro romanzo, poi qualche recensione e se ne era fatta un’idea sua con la calma dello studioso disinteressato ch’era stato allora. Ammirava qualche parte, biasimava qualche altra. Macario era un adepto risoluto e il suo entusiasmo bastò ad Alfonso per vagliare la sua mente. Così mentre Macario lo guardava con certo sorriso derisorio significante «I miei pochi studi valgono i tuoi molti perché ho buon naso», l’aspetto di Alfonso serio, attento, da scolare che riceve una lezione, celava la soddisfazione di sentirsi superiore. Evitava una discussione da cui non poteva sperare di riuscire vincitore contro la facilità di parola di Macario. La parte d’indifferente era però impossibile con un parlatore simile e, quasi involontariamente, Alfonso diede dei segni di assenso che per tranquillare la propria coscienza destinava alle singole frasi di Macario, non a tutta la sua idea. Alcune erano tanto belle che Alfonso sospettò fossero rubate. Parlava di creazione fatta dall’uomo, la quale, per i risultati, non aveva niente da invidiare a quella biblica. Nel metodo differivano alquanto, ma ambedue le creazioni finivano coll’arrivare alla produzione di organismi che vivevano a sé e che non portavano alcuna traccia di essere stati creati.
Macario raccontò che veniva in biblioteca per leggere con calma Balzac che i naturalisti dicevano loro padre. Non lo era affatto o almeno Macario non lo riconosceva. Classificava Balzac quale un retore qualunque, degno di essere vissuto al principio di questo secolo.
Erano giunti in piazza delle Legna camminando tanto lentamente che ci avevano messo mezz’ora. Per via Macario aveva trovato il tempo di ammirare il bel visino di una sartina e far arrossire una signorina sgranandole in faccia due occhi ammirati. Alfonso invece non aveva saputo far altro che ascoltare.
– Dove abita? – chiese Macario appoggiandosi al suo braccio.
– Da quelle parti! – e accennò vagamente alla città vecchia.
– L’accompagnerò un pezzo.
Come si poteva non essere lusingati di tanta gentilezza e come si poteva mettersi in discussione per difendere Balzac dalla taccia di retore? In risposta alla gentile offerta, Alfonso risolutamente sacrificò Balzac.
– È retorico di spesso, certo!
Non entrarono in città vecchia ma ritornarono sul Corso.
– Sa che lei dovrebbe ora trovarsi divinamente in casa di mio zio? È divenuta tutt’altra casa; Annetta si dedica alla letteratura. Vuole che andiamo a trovarla? È ritornata dalla campagna da otto giorni e riceve quasi ogni sera degli amici; è sulla via di emanciparsi anche più di quanto lo fosse in passato.
– Davvero? – chiese Alfonso dimostrando sorpresa.
Cercava di trovare la risposta per rifiutare l’invito.
Macario fece come se Alfonso avesse già accettato. Seguito da lui attraversò il Corso e imboccò via Ponte Rosso. Alfonso era sempre ancora indeciso.
– La vedrà! È bellissima così. Passa mezza giornata a tavolino. Ecco almeno una vocazione che non inquieta nessuno; fra qualche mese non ne parlerà più. Credo le abbia turbata la mente la fama conquistata in Italia da altre donne. Queste donne! Una comincia e le altre seguono come le oche. L’esempio degli uomini non conta per esse. Imitano questa, imitano quella, e mai s’accorgono