L'innocente. Gabriele D'Annunzio
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Ella si levò, e io l’aiutai anche a indossare la giacca. Due o tre volte i nostri occhi s’incontrarono fugacemente; ma ancóra una volta io lessi nei suoi una specie di curiosità inquieta. Ella forse domandava a sé stessa. «Perché è entrato qui? Perché si trattiene? Che significa quella sua aria smarrita? Che vuole da me? Che gli accade?»
– Permetti… un momento – disse, e uscì dalla stanza.
L’udii che chiamava Miss Edith, la governante. Come fui solo, involontariamente i miei occhi andarono alla piccola scrivania ingombra di lettere, di biglietti, di libri. M’avvicinai; e i miei occhi vagarono per un poco su le carte, come tentati di scoprire… «che cosa? forse la prova?». Ma scossi da me la tentazione bassa e sciocca. Guardai un libro che aveva una coperta di stoffa antica e tra le pagine una daghetta. Era il libro in lettura, sfogliato a metà. Era il romanzo recentissimo di Filippo Arborio, Il Segreto. Lessi sul frontespizio una dedica, di pugno dell’autore: – A voi, Giuliana Hermil, TVRRIS EBVRNEA, indegnamente offro. F. Arborio. Ognissanti ‘85.
Giuliana dunque conosceva il romanziere? Quale attitudine aveva lo spirito di Giuliana verso colui? Ed evocai la figura fine e seducente dello scrittore, quale io l’aveva veduta in luoghi publici qualche volta. Certo, egli poteva piacere a Giuliana. Secondo alcune voci che erano corse, egli piaceva alle donne. I suoi romanzi, pieni d’una psicologia complicata, talora acutissima, spesso falsa, turbavano le anime sentimentali, accendevano le fantasie inquiete, insegnavano con suprema eleganza il disdegno della vita comune. Un’agonia, La Cattolicissima, Angelica Doni, Giorgio Aliora, Il Segreto davano della vita una visione intensa come d’una vasta combustione dalle figure di bragia innumerevoli. Ciascuno dei suoi personaggi combatteva per la sua Chimera, in un duello disperato con la realtà.
«Non aveva questo straordinario artista, che i suoi libri mostravano quasi direi sublimato in essenza spirituale pura, non aveva egli esercitato il suo fascino anche su me? Non avevo io chiamato quel suo Giorgio Aliora un libro «fraterno»? Non avevo io ritrovato in qualcuna delle sue creature letterarie certe strane rassomiglianze col mio essere intimo? E se appunto questa nostra affinità strana gli agevolasse l’opera di seduzione forse intrapresa? Se Giuliana gli si abbandonasse, avendogli appunto riconosciuta qualcuna di quelle attrazioni medesime per cui io mi feci un tempo da lei adorare?» pensai, con un nuovo sgomento.
Ella rientrò nella stanza. Vedendo quel libro tra le mie mani, disse con un sorriso confuso, con un po’ di rossore:
– Che guardi?
– Conosci Filippo Arborio? – io le domandai sùbito, ma senza alcuna alterazione di voce, con il tono più calmo e più ingenuo ch’io seppi.
– Si – ella rispose, franca. – Mi fu presentato in casa Monterisi. È venuto anche qualche volta qui, ma non ha avuto occasione d’incontrarti.
Una domanda mi san alle labbra. «E perché tu non me ne hai parlato?» Ma la trattenni. Come avrebbe ella potuto parlarmene, se da molto tempo io col mio contegno aveva interrotto tra noi ogni scambio di notizie e di confidenze amichevoli?
– È assai più semplice dei suoi libri – ella soggiunse, disinvolta, mettendosi i guanti con lentezza. – Hai letto Il Segreto?
– Sì, l’ho già letto.
– T’è piaciuto?
Senza riflettere, per un bisogno istintivo di rilevare davanti a Giuliana la mia superiorità, io risposi:
– No. È mediocre.
Ed ella disse alfine:
– Io vado.
E si mosse per uscire. Io la seguii fino all’anticamera, camminando nel solco del profumo ch’ella lasciava dietro di sé fievolissimo, appena appena sensibile. Davanti al domestico, ella disse soltanto:
– A rivederci.
E con un passo leggero varcò la soglia.
Io tornai alle mie stanze. Apersi la finestra, mi affacciai per veder lei nella strada.
Ella andava, col suo passo leggero, sul marciapiede dalla parte del sole: diritta, senza mai volgere il capo da nessuna banda. L’estate di San Martino diffondeva una doratura tenuissima sul cristallo del cielo; e un tepore quieto addolciva l’aria, evocava il profumo assente delle violette. Una tristezza enorme mi piombò sopra, mi tenne abbattuto contro il davanzale; a poco a poco divenne intollerabile. Rare volte nella vita avevo sofferto come per quel dubbio che faceva crollare d’un tratto la mia fede in Giuliana, una fede durata per tanti anni; rare volte la mia anima aveva gridato così forte dietro un’illusione fuggente. Ma dunque era proprio, senza riparo, fuggita? Io non potevo, non volevo persuadermene. Tutta la mia vita d’errore era stata accompagnata dalla grande illusione, che rispondeva non pure alle esigenze del mio egoismo, ma a un mio sogno estetico di grandezza morale. «La grandezza morale risultando dalla violenza dei dolori superati, perché ella avesse occasione d’essere eroica era necessario ch’ella soffrisse quel ch’io le ho fatto soffrire.» Questo assioma con cui molte volte ero riuscito a placare i miei rimorsi, s’era profondamente radicato nel mio spirito, generandovi un fantasma ideale dalla parte migliore di me assunto in una specie di culto platonico. Io dissoluto obliquo e fiacco mi compiacevo di riconoscere nel cerchio della mia esistenza un’anima severa diritta e forte, un’anima incorruttibile; e mi compiacevo d’esserne l’oggetto amato, per sempre amato. Tutto il mio vizio, tutta la mia miseria e tutta la mia debolezza si appoggiavano a questa illusione. Io credevo che per me potesse tradursi in realtà il sogno di tutti gli uomini intellettuali: – essere costantemente infedele a una donna costantemente fedele.
«Che cerchi? Tutte le ebrezze della vita? Esci, va, inèbriati. Nella tua casa, come un’imagine velata in un santuario, la creatura taciturna e memore aspetta. La lampada, dove tu non versi mai una stilla d’olio, rimane sempre accesa.» Non è questo il sogno di tutti gli uomini intellettuali?
Anche: «In qualunque ora, dopo qualunque fortuna, ritornando, tu la ritroverai. Ella era sicura del tuo ritorno ma non ti racconterà la sua attesa. Tu poserai il capo su le sue ginocchia; ed ella ti passerà lungo le tempie l’estremità delle sue dita, per magnetizzare il tuo dolore».
Ben un tal ritorno era nel mio presentimento: il ritorno finale, dopo una di quelle catastrofi interne che trasformano un uomo. E tutte le mie disperazioni venivano temperate da un›intima confidenza nell›indefettibile rifugio; e in fondo a tutte le mie abiezioni scendeva un qualche lume dalla donna che per amore di me e per opera mia aveva raggiunto il sommo dell’altezza corrispondendo perfettamente a una forma delle mie idealità.
Bastava un dubbio a distruggere ogni cosa in un attimo?
Io riandai tutta la scena passata tra me e Giuliana, dal momento del mio ingresso nella stanza al momento della sua uscita.
Pur attribuendo gran parte dei miei moti intimi a uno speciale stato nervoso transitorio, non potei dissipare la strana impressione esattamente espressa dalle parole: «Ella mi pareva un’altra donna». Certo, una qualche novità era in lei. Ma quale? La dedica di Filippo Arborio non aveva piuttosto un significato rassicurante? Non riaffermava appunto l’impenetrabilità della TVRRIS EBVRNEA? L’appellativo glorioso era stato suggerito a colui o semplicemente dalla fama di purezza che avvolgeva