Eros. Giovanni Verga
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Читать онлайн книгу Eros - Giovanni Verga страница 11
«Non ne potevo piú!» disse ridendo.
Il povero giovane si sentí tutto sossopra.
«È naturale che tutti le facciano la corte…» balbettò.
«Vorrebbe farmela anche lei?» diss’ella con un accento e un sorriso singolari.
Alberto ammutolí, e a lei il sorriso morí sulle labbra.
Passeggiarono lentamente per le sale, ella battendo col ventaglio il tempo di un valzer che suonavano.
«Com’è bello!» esclamò Alberto.
«È Strauss,» rispose ella distratta.
«O perché non si balla un giro?»
«A proposito della corte?» diss’ella sorridendo.
Alberto volle sorridere colla medesima disinvoltura, ma ci riescí assai male.
«Ebbene…» disse «sí!»
«No!» rispose ella col medesimo tono, ma un po’ piú recisamente.
Il giovane insistette con insolito calore; ella diveniva piú capricciosa e piú ostinata, scuoteva il capo con certa grazia risoluta, e mordevasi le labbra con certo sorrisetto malizioso, appoggiando le spalle allo stipite di una finestra e stringendo il ventaglio nelle mani. Di tanto in tanto, quasi non se ne avvedesse, raggi seduttori le scappavano dagli occhi. Ad un tratto, senza dir nulla, mentre sembrava piú ferma nel rifiuto, appoggiò mollemente il braccio alla spalla di lui, e si lasciò andare.
Essa ballava in modo singolare, un po’ diritta, col capo alto, e il braccio disteso. Di tanto in tanto gli diceva qualche parola senza importanza, o scuoteva con grazia inimitabile la sua bionda testolina. Si fermò all’improvviso, un po’ rossa, un po’ smarrita, svincolò con impazienza impercettibile la mano che ancora egli le teneva, gli lanciò a bruciapelo uno sguardo singolare, viso contro viso, e impallidí leggermente.
«Non ballo piú» gli disse «sono stanca.»
La contessa Armandi era lí presso ed esclamò:
«Che bella coppia!»
Velleda rispose con un grazioso inchino. Alberto, passando accanto a uno specchio, vi gettò uno sguardo e poscia arrossí di averlo fatto; ma nello specchio sorprese due grandi occhi che lo seguivano amorosamente dal fondo di un canapè. Andò verso la povera Adelina, la quale se ne stava modestamente rannicchiata fra due mamme, e sembrò rianimarsi come lo vide venire e gli sorrise cogli occhi.
«Non balli?» domandò il cugino, allorché furono soli.
«Non mi hai invitato a ballare!» rispose Adele timidamente carezzevole.
«Ci son tanti giovanotti…!»
«Non voglio ballare cogli altri…»
«Perché?»
«Perché… perché… perché non voglio.»
Ei chinò il capo, tuttora bollente del soffio che Velleda vi aveva gettato, e si allontanò sopra pensiero. Stava da qualche tempo nel vano di una finestra, colla fronte sui vetri, guardando nel buio, allorquando udí un fruscío di vesti vicino a lui, e si trovò accanto la contessa Armandi.
«Non balla il cotillon?…» gli domandò.
«No, contessa.»
Ella sembrò volere aggiungere qualche altra parola, ma gli fece un segno col ventaglio, sorrise e si allontanò. Ei seguiva macchinalmente cogli occhi il turbinío di quella danza in mezzo alla quale la contessa stava come una regina, di cui tutti si contendevano un sorriso o un giro di valzer. Improvvisamente quella regina andò diritto verso di lui, gli gittò come una sultana il suo fazzoletto ricamato, gli mise sulla spalla la mano splendida di gemme, e fra le braccia la vita sinuosa ed elastica – poi, quando ebbe finito di ballare, lo ringraziò con un sorriso.
«Voglio conoscerla meglio:» gli disse «facciamo un giro.»
Tutti gli sguardi si volsero su quell’uomo fortunato e quell’altera beltà che passavano. Egli pensava al giorno in cui l’aveva vista mollemente distesa nella sua carrozza, fra una nuvola di polvere e di veli.
Entrarono nella stufa, profumata, silenziosa, oscura. La contessa sedette. Il discorso andava a sbalzi, scucito con certa bizzaria capricciosa che ella sapeva dargli, strisciando in tutti i zig-zag serpentini pei quali ella voleva farlo passare, brioso, civettuolo, elegante come lei. Poi ella non disse piú una sola parola, appoggiò il mento sulla mano, e guardò qua e là con occhi distratti; il fisciú alitava lieve lieve, e gettava una certa dolce ombra livida sul seno d’alabastro: ella apriva e chiudeva macchinalmente il suo ventaglio, e faceva scrosciare le stecche fra di loro. Tutt’a un tratto piantò in volto ad Alberto uno sguardo e un sorriso singolari, e gli disse:
«Ma noi ci compromettiamo orribilmente, mio caro!»
Si alzò ridendo e si allontanò.
Allorchè gli ospiti di villa Forlani lasciarono la festa erano le due del mattino. La notte era buia, il cielo senza stelle, la campagna paurosa. Di quando in quando il vento mugolava fra le gole lontane. Adele un po’ melanconica stava nel fondo della carrozza, avviluppata nel suo mantello. Velleda teneva il viso allo sportello. Alberto respirava a pieni polmoni.
«Che bella sera!» esclamò. Velleda gli rivolse una rapida occhiata.
I sogni di quella notte! popolati di tutte le larve dell’amore, di tutte le febbri della giovinezza, di tutte le lusinghe delle vanità, di tutte le ebbrezze dei piaceri! Povera Adele, se avesse potuto indovinarli!
XI
Alberti si svegliò tardi, stanchissimo, e col capo peso. Un raggio di sole penetrava fra le stecche della persiana e faceva luccicare la vernice del cassettone; ei gli sorrise, poscia rimase a fissarlo con occhi sbarrati; infine si alzò con un inesplicabile malumore.
Il suo primo sguardo fu per la finestra di Velleda: era chiusa. All’ora della colazione entrando nella sala da pranzo, volse intorno uno sguardo ansioso.
«Sei malato anche tu?» gli chiese Adele correndogli incontro festosa.
«Chi è malato?»
«Velleda, che non viene a colazione perché è cosí stanca da starne male. Avete ballato molto!»
Alberto lasciò cadere il sorriso ingenuo e l’aria giuliva della fanciulla. La colazione non fu molto gaia. Lo zio Bartolomeo uscí appena alzatosi da tavola, e li lasciò soli.
La fanciulla guardava il cugino alla sfuggita, gli porgeva i fiammiferi e la borsa del tabacco, cercava di prevenire tutti i desideri di lui, e, dopo di avere esitato lungamente:
«Che hai?» domandò.
«Io? nulla.»
«Non è vero; hai qualcosa.»
Il giovane sentí penetrarsi sino al cuore quell’osservazione, e rimase un po’ senza rispondere.
«Ma