La Carbonaria. Giambattista della Porta

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La Carbonaria - Giambattista della Porta

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Buonissima, eccellentissima.

      Filigenio. E tu sei quello che lo guidi e aiuti?

      Forca. Io, quando lo vedo tiepido e disamorato, l’aguzzo l’appetito.

      Filigenio. Talché tu sei il maestro.

      Forca. Maestro io? signor no, è il maestro del Studio.

      Filigenio. Che Studio? che signor no? Di che parli tu?

      Forca. E voi di che parlate?

      Filigenio. Io parlo della sua puttana.

      Forca. Ah, io non pensava che voi parlaste di cose triste, ma della sua Legge; e tutto il giorno si trastulla con la sua libraria, la strapazza e se la tiene aperta innanzi.

      Pirino. (O buon Forca, come l’hai ben salvata!).

      Filigenio. Cosí mi burli, eh?

      Forca. Io non burlo altrimente; rispondo alle vostre dimande.

      Filigenio. O Dio, che avessi un bastone! ché avendo tu la pelle delle spalle piú indurita di quella degli asini, se ti do con le mani, offenderò piú me che te. O che unguento di cancheri! Traditorissimo, se non ti disponi a dirmi la veritá, proverai lo sdegno di un padron irato e schernito da te. Ti darò tante bòtte che amboduo restaremo stracchi, io di dar, tu di ricevere.

      Forca. Dico il vero, a voi sta il creder quel che volete.

      Filigenio. Non mi hai risposto a quello che ti dimandava. Vuoi tu negarmi che Pirino non stia innamorato di una puttana, chiamata Melitea, che l’ha in poter un ruffiano che ne chiede cinquecento ducati?

      Forca. Signor no, signor sí, eh, padrone.

      Filigenio. Che «signor sí», «signor no» cerchi in nasconder la veritá? ed è tanta la sua forza che a tuo dispetto ti muove la lingua a dirla.

      Forca. Eh, padron mio.

      Pirino. (Sta’ saldo, Forca, ché il padron non ti scalza).

      Filigenio. Che padrone? mi fai del balordo; che balbezzare è il tuo?

      Forca. Io non so nulla; ma… .

      Filigenio. Che ma?

      Forca. Direi alcuna cosa, se stessi sicuro che egli non l’avessi a sapere.

      Filigenio. T’impegno la fede mia che non sará per saperlo giamai.

      Forca. Dubito che voi lo scoprirete un giorno, ed egli mi salterá adosso con un bastone; e non sapete che tremo in sentirlo nominare?

      Filigenio. Non dubitar, dico, ché quando io non bastassi a difenderti, sarei uomo da farti franco e mandarti via.

      Pirino. (Questa bestia mi fa entrare in suspetto).

      Forca. So che lo risaprá, e le spalle ne patiranno la penitenza. Ma alfin voi sète il padrone, vo’ piú per voi che per lui.

      Filigenio. Cosí mi par di ragione.

      Forca. Quanto avete detto, tutto è vero: che sta innamorato di una cortegiana, detta Melitea, che sta in poter di un ruffiano che l’ha venduta ad un dottore per cinquecento ducati; e però ne arrabbia di dolore.

      Filigenio. Dove pensa avergli?

      Forca. Rubbargli a voi come meglio potrá.

      Pirino. (Ecco che fa l’affratellarsi con i servidori: pensava aver un servo fidele e ho una spia secreta di mio padre).

      Filigenio. Come volete rubbarmi, se sto in cervello e mi guardo piú di voi che di tutti i ladri del mondo?

      Forca. È deliberato scassar lo scrittorio, se non lo può aprir col grimaldello.

      Pirino. (Merito questo e peggio. Or non sapevo io che i maggiori inimici che abbiamo sono i servidori?).

      Filigenio. Ma come mi accorgeva del fatto, come andava il fatto per voi?

      Forca. V’attossicavamo.

      Pirino. (O Dio, che ascolto? non posso contenermi, mi risolvo lasciar il rispetto da parte, passargli questa spada per i fianchi, e accadane quel che si voglia).

      Filigenio. Al suo padre questo? ahi, figli iniqui! or non dovea cosí scelerato pensiero indurgli terrore?

      Forca. Ma tutto ciò è nulla: ci è di peggio assai.

      Filigenio. Che ci può esser peggio?

      Forca. Quel dottore è un cervello bizaro, straordinario, ha molti bravi che lo seguono, per un pelo se la torrebbe col diavolo; ne sta geloso e ha deliberato farlo ammazzare e li tiene le spie sovra.

      Pirino. (Non gli basta quanto ha detto: ci vuol aggionger del suo ancora).

      Filigenio. Se ben per i continui inganni che m’ave usato costui, non gli devo prestar fede, pur la vita di un figlio importa molto. Forca, tu che conosci costoro e sai questi maneggi, ricorro a te, mi pongo nelle tue mani; vorrei che rimediassi, ché non si procedesse piú oltre.

      Forca. Non è cosa da ragionarsene in piazza: potrebbe egli sovragiongere e stimarebbe che il tutto fusse uscito da me, e non si potrebbe piú rimediare: vi mostrerò modo di salvarlo.

      SCENA VI

      Pirino. solo.

      Pirino. Ah, Forca traditore, che tradimento m’hai tu fatto? farmi suspetto e reo appo mio padre! Ti arai voluto vendicare di quelle bastonate de quali poco anzi ti dolevi di me. Come arò animo di comparir piú mai dove il mio padre sia? manderò me stesso in essiglio. Perderò in uno istesso tempo il padre, la patria e l’innamorata, che è peggio assai che perder la propria vita. O come accetterei volentieri alcuna sorte di morte per liberarmi da vita cosí nemica. Uh, uh! Possa esser fatto in mille pezzi, se la scappi: vo’ morire, ma prima che muoia farò vendetta della cagion della mia morte. Mi tratterrò da qui intorno finché venghi, per passargli la spada mille volte per i fianchi.

      ATTO II

      SCENA I

      Panfago parasito, Pirino.

      Panfago. Par che questa mattina nell’uscir di casa abbia cantato la civetta, cosí ogni cosa mi va a traverso. Vo al dottore per desinar con lui, e mi dice che sta colerico, perché la sua innamorata ama altri e sta inferma. Vo in casa di un altro, e trovo la casa piena di pianto, ché vi si facea il mortorio. Fui forzato andare ad un certo che avea abbandonato, perché non avea piú succo – perché noi siamo come i pidocchi: quando

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