Le amanti. Matilde Serao
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– Vieni.
Breve romanzo e intenso, condotto fuor di loro da una mano invisibile: un giorno si erano incontrati fuori Roma, in quella umida, lugubre via Angelica, lungo il fiume tragico che ogni giorno ha il suo morto. Chi aveva strappato la dama ai suoi convegni aristocratici per mandarla a contemplare i vortici traditori del Tevere? Chi aveva preso l’uomo alla sua ambizione, alla sua politica, ai suoi affari? Esiste dunque una fatalità nella passione; o il cuore ha la sua seconda vista, che è anche qualche cosa di fatale; o vi è nell’anima una seconda vita latente, incosciente, sopra cui nulla può la volontà?
– È vero che mi ami? – le aveva chiesto lui, arrossendo e impallidendo, come se quella fosse la prima volta che parlasse di amore.
– Sì – ella aveva detto, senz’altro.
La virile mano dell’uomo aveva sfiorato la sottile mano guantata di nero. Si guardavano e si sentivano bruciare di passione; una uguale grande fiamma li ardeva. Più la reprimevano e più essa divampava internamente, consumando le loro forze in una febbre singolare. Temevano il mondo, malgrado che fossero liberi; lo temevano con una paura di tutti i momenti, con un tremore come d’imminente catastrofe. Niuno aveva il diritto di muovere loro un rimprovero, eppure essi temevano tutto, l’uomo che passa e sogghigna, la donna che passa e sorride, l’impiegato postale che consegna la lettera con uno sguardo d’intelligenza, il servo che domanda permesso prima di entrare, l’amico che assume un’aria discreta, l’amica che interroga con un cenno: la più umile, la più sciocca creatura li faceva fremere di spavento. Forse, amandosi in quella forma così rovente, sentivano di abbandonarsi a una passione tanto diversa dai miseri e fallaci amori quotidiani, da dover meritare l’invidia, il biasimo e la calunnia; forse, il segreto è la grande condizione dell’intensità. Così si vedevano, alla sfuggita, ogni tanto, avendo messo nella rapida ora tanti sogni, tante speranze, tanto fuoco d’amore, che non trovavano parole, soffocati, come coloro che hanno le vertigini degli altissimi pinnacoli; in tre o quattro mesi, fra la primavera e l’estate, vivendo egli a una villa sui colli albani, essa nella palazzina campestre fra gli aranci di Sorrento, si erano incontrati due volte, per due giornate, in un villaggio presso Milano, la prima volta, a Baia la seconda volta. Tutta la loro vita era sospesa a quei due giorni di passione ardente; tutto l’intervallo fra quei due giorni non era che una lunga aspettazione di giorni aridi e annoiati, di notti vegliate, in una rivoluzione del cuore e dei nervi. Ad ambedue, quando, per consolare le ore di lontananza, essi evocavano quelle due giornate, appariva come una grande fiamma lieta e alta e divorante; il ricordo era vasto, immenso, vago, quale un oceano di fuoco, sopra cui qualche punta appariva, come estremo albero di nave sommersa. Insistentemente egli si rammentava il volto smorto di lei, quando ella si affacciò al vagone fermato nella stazione di Monza e, malgrado ogni suo impeto di evocazione, pur volendo fermamente rivederla col suo delicato e profondo sorriso delle ore più felici, egli continuava ad avere innanzi quella faccia pallida di donna morente. Egli cercava di rianimare tutti i suoi ricordi, di quei due giorni, come ella era vestita, la foggia della sua acconciatura, le parole che aveva dette, il tono della sua voce: ma una sola sensazione, acuta, squisita, gli ritornava, con la persistenza di un martello sull’incudine: il profumo che avevano i guanti morbidi di Grazia e le mani sottili profumate. Quando le scriveva di quei giorni, confusamente, egli ritornava sempre a dire di quella faccia pallida allo sportello e di quelle mani odorose, di quei guanti così profumati «…che è quel profumo, dimmi, dimmi, amore, perchè io l’ho confitto nell’anima e ogni tanto mi fa piangere, come un fanciullo, perche il mio amore è lontano e io non posso avere, sotto le mie labbra, le sue mani inebrianti?…» Ed ella nella fiorita campagna sorrentina, quando i villeggianti vicini, o i suoi ospiti, ritirandosi, l’avevano lasciata sola, libera, ella voleva far riapparire fantasticamente quei due indimenticabili giorni di oasi; ma armandosi con la stessa forza, con la stessa intensità, lo stesso inesplicabile fenomeno psicologico avveniva in lei ed ella non poteva che ricordare qualche scintilla della grande fiamma. Fra un turbine roteante d’impressioni, rammentava soltanto, Grazia, un sorriso enigmatico alla sua domanda: e tu, perchè mi ami? Sì, egli aveva avuto un sorriso bizzarro, lungo, pieno di un segreto profondo: ella rivedeva sempre innanzi agli occhi quel sorriso acuto, crudele, che parea le nascondesse la verità, tormentosamente. E nelle orecchie, nel cervello di Grazia restava una sensazione fissa, continua, invincibile, il ricordo della sua voce, quando la chiamava sommessamente, teneramente, dolorosamente, come se chiedesse amore e soccorso, come se invocasse pietà: Grazia, Grazia, Grazia!…
Così identica era la loro passione nel carattere, nella profondità, nella misura che il grande sogno da realizzare nacque nelle loro fantasie esaltate, contemporaneamente, germogliando nello stesso pomeriggio autunnale, nella stessa ora di disperazione, mentre erano lontani lontani, per molte miglia. Ambedue furono colpiti dal medesimo, irresistibile desiderio, contro cui nulla più poteva difenderli; ambedue arsero di tale desiderio come se fosse il più alto, l’estremo delle loro anime. L’immenso avvenire innanzi, alle loro esistenze ancora giovani, li sgomentava con la sua solitudine arida, mentre essi portavano in cuore di che riempirlo per sempre, di una strabocchevole felicità. Al punto in cui la grande fiamma che li ardeva era giunta in entrambi, era loro insopportabile vivere ancora, divisi, lontani, estranei: lo stesso cupo dolore li abbatteva. La paura del mondo, delle sue ciarle, delle sue calunnie veniva man mano scomparendo innanzi a questo bisogno di amore, di felicità che è in fondo a tutti i temperamenti umani, più freddi e più silenziosi, e che nell’ora della passione parla di una voce che nulla fa tacere. Per chi si sacrificavano? In nome di quale principio, di quale idea, di quale persona? Su quale altare sconosciuto deporre l’olocausto della loro passione?
– Io non posso più soffrire, la mia vita finisce – scriveva Grazia.
– Io non posso più soffrire, il mio coraggio è esausto – scriveva Ferrante.
In tale ardente impazienza, la loro sensibilità sentimentale raffinata dai sogni, dalle insonnie, dalle lettere incoerenti, si era fatta così acuta, così squisita, così fremente alla minima impressione, che quanto li circondava era complice del loro abbandono. Quando donna Grazia passeggiava sotto gli ombrosi viali della sua villa di Sorrento e fra gli aranci odorosi le arrivava il canto sottile di qualche voce innamorata, un improvviso fiotto di lacrime la inteneriva: e coloro che l’accompagnavano,