Poesie scelte. Giovanni Prati
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Agili gondolette, una sull’altra
Scivolanti alla corsa, e un muover chiuso,
Come di campo, e un dar vario ne’ remi,
E un urtar nelle prue con meditata
Frode leggiadra, e poi tutte svagarsi,
Come nere isolette, in seno all’acque,
E seguitarle de’ nocchieri il canto.
Ma in quella gaia compagnia, la loro
Gondoletta non venne. E tu la miri
Colaggiù, solitaria, in lontananza,
Abbandonarsi alla balìa del vento,
Come svïato pellegrin che pianga
Per lo deserto.
In quelle cento prore
L’aperta gioia sfolgorò. Qui siede
Il dolor e l’amor, fiori di tempra
Passionata e gentil, che cercan sempre
Gioie romite.
E quando quella turba
Di navicelle, dai percossi flutti,
Una ad una, scomparvero, a misura
Che il ciel più sempre si vestìa di stelle,
Quel remoto battel venne alla riva.
I languidi occhi Edmenegarda spinse
Dietro la folla che dai curvi ponti
Diradata calando, iva in dileguo.
E sgombero di genti era già il lido…
Se togli un uom, che si tenea per mano
Due fanciulletti, con le fronti chine
E vestiti a gramaglia.
Ahi, che parola
Di tremendi dolori, indossar lutto
Di persona vivente!!
Ella conobbe
L’anime offese, e serpeggiar la morte
Sentì nel cor; ma si contenne. E volti
Gli occhi sul mare, al suo tacito amico:
«Come è bello, dicea, questo lucente
Solco, che sotto all’agitar dei remi,
Qual per magica verga, esce dall’acque!»
Così volaro i tempi. E le congiunte
Anime solitarie, come due
Rondini amanti che fuggir dal falco,
Guardavano il lor nido, allontanate
Dalla guerra del mondo.
Edmenegarda,
Dopo lagrime lunghe, e procellose
Preci, e torbide gioie, e rivocati
Proponimenti, e divorar con fiero
Sforzo quell’onda di martìri, e pace
Dimandar dalla morte, e sul futuro
Spinger ratto la mente e poi ritrarla
Impäurita, e desïar che tutte
Precipitasser le create cose,
E due spiriti soli issero erranti
Sulle vaste ruine… alfin quetossi
La desolata e stanca in quel fallace
Sonno d’amore.
O Amor! come trasmodi
Nostra natura, e dentro v’intenèbri
La scintilla di Dio.
Velo d’inganni
Tesse prima il rimorso; e il cor s’avvede,
Ma, pago d’ingannarsi, il cor non bada;
O se vi bada, di badarvi ha sdegno;
E, poco a poco, il misero costume
Rende l’inganno a verità simìle.
Come fu? Come avvenne?… Indarno il chiedi.
Stanco s’addorme il bambinel tra i fiori,
E si risveglia col velen nell’ossa.
E così fu di lei, buona già tanto!
Credette pria; poi dubitò; poi disse:
«Non è ver, non è ver! – Qual fede io ruppi?
Su quale altare io lo giurai? Qual Dio
Presiedette al mio giuro? Esser non puote
Che un monarca sì grande oda ogni vano
Bisbigliar de’ mortali. Un re sì giusto
Esser non può che a servitù condanni
Questo fuoco d’amor, che da lui parte
Libero tanto ed è movenza e luce
Del suo creato! L’avvenir?… Chi ‘l vede?
Chi può giurar sull’avvenir?… Chi giura
S’ei domani vivrà? Se questo sole
Splenderà sulla terra? Ama la tigre
Il suo compagno; ma se amor la volge
Naturalmente ad altre gioie, è stolto
Chi ne la incolpa. E l’uom misero ardisce
Emendar la natura? Ama il selvaggio
La donna sua; ma talamo è la rupe,
Talamo il lido ai non vietati amplessi,
Che fan forte l’amore. E senza lacci
Sono i turbini e l’onde. E chi le doma
Starà sempre in catene?… Oh è ben scaduta
Questa di belve incivilita plebe!»
Lette in infauste pagine, e dai labbri
Del suo Leoni mille volte udite,
Tai cose ed altre a sé dicea la donna.
Non qual chi pensa in sicurezza il vero,
Ma qual chi tenta, con la mente ardita,
Suadere al cor che ogni paura è tolta.
E non sapea che quell’incerto moto,
Quel senso vago, quella nube arcana,
Che le errava sull’alma, era il più grande
De’ mortali spaventi, era l’occulto
Sentimento di Dio.
Fu di Leoni
Così cortese, delicato, intenso,
Previdente l’amor, che al caro volto
Rifioriron le rose, e un novo raggio
Vestì gli occhi diletti; e le rivenne
Desiderio dei fior.
Furono in breve
Quelle stanze un profumo, una celeste
Musica di colori, un inusato
Tesor di pompe. E qua serici drappi
E lucenti ottomane, e sulla terra
Morbide pelli a render muto il passo;
E sulle mura le dipinte imprese
Di dame e cavalieri; e di Gulnara
Sulle ginocchia del Corsaro il pianto,
E il bel crociato che in un roseo nembo
All’amoroso susurrar dei rivi
Bacia i grandi e lascivi occhi d’Armida;
E pendule dall’alto a mezzaluna
Lampade vaghe a illuminar le mense,
E argentei vasi, e d’alabastro e d’oro
Splendide conche, e bei volumi e fiori
Sparsi,