Poesie scelte. Giovanni Prati
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Suonar d’un cocchio; e nell’obliqua fuga
Città, ville, castella e colli e monti
E pianure e torrenti. Alto un tripudio
Di cacce e prandi; libera una pompa
Alle danze, alle corse; e in quella vita,
Che parea venturosa, il verme arcano
A corroderla sempre. Uno spavento
Fea trabalzar sulle agitate piume
La sognatrice; ma durava il sogno,
Che del futuro le squarciò il velame.
E sotto al raggio d’un fanal notturno,
Cinto di bari, in una cava oscura,
Scoperse un uomo (e le parea Leoni)
Gittar convulso l’ultima moneta
Sopra una carta; e stringere le pugna,
Bianco dall’ira; e bestemmiar la sorte
E giurar contro Dio.
Mise ella un grido,
Ma non seppe destarsi. E quella stanza
Maledetta fuggìa. Ma un’ampia landa
Le si pose davanti; e misurarla
Vedea quell’uomo a giganteschi passi,
E lunge lunge, oltre i morenti lembi,
Onde si distendeano, onde ed altre onde,
Senza riposo. E una raminga prora,
Come penna di corvo entro alle nebbie,
In quelle vaporose indefinite
Lontananze del mar si disperdea.
Trambasciata, sudante, ella si scosse.
Aperse gli occhi, le rivenne il senso;
Sul cor tremante delle viste cose
Ne passaron mill’altre; un gel la strinse;
E disperatamente, tra le coltri
Chiusa la testa, più pensier non ebbe.
Taciti e soli, sul venir dell’alba,
Mosser dai campi alle natie lagune.
Rifecer quelle vie senza parola;
Risolcaron quell’acque.
Egual rimasta
Era la terra. Eguale il mar. Partiti
Eran col riso dell’april; col riso
Dell’april ritornavano. Ma il core?
Ah! sui campi del core a disertarli
Era passato il vento della morte.
Quel riveder, risalutar gli alberghi
Consci di tante voluttà segrete,
Ben fu com’aura, che vagasse intorno,
Cercando i fiori dell’eliso antico.
Ma non trovò che nude alighe e pruni,
E dileguò, gemendo.
Alfin dei tempi
Destinati da Dio l’ora è suonata.
Leoni ha risoluto. Aspre le pugne,
Fieri i tumulti, amaramente mista
La vergogna al dolor, morto il passato,
L’avvenir senza speme, e messi in fondo
Il nome e la fortuna, ha risoluto.
Strascinerà vituperato i giorni,
Sotto altro ciel.
Più volte quel codardo
Meditò di morir. Ma amor lo vinse
Della misera creta ond’era cinto,
Non terror del misfatto; e ruppe il ferro.
Non fugge infamia. Dell’infamia il nome
Sol può mutar.
«La stolta ira del mondo
Mi percota. Che importa?… Non è campo
Tra noi per misurarci. Ahi! la perduta
Giovinezza del cor! Questa è la spada
Che ferisce profondo. E i lieti giorni
Non potran più rinascere… Ed io solo
Fui, che li uccisi!… Ed altre vite, ed altri
Estinti amori: e lacerato il nodo
D’anime mansuete… e la materna
Felicità d’un angelo!… Ah, la morte,
Ch’io non so darmi, saria pur pietosa,
Se mi venisse a liberar da queste
Dure battaglie! Ancor quest’oggi il pane…
Ancor quest’oggi. E poi?… No, no. Sull’onde
Getterò la mia vita. Io più non voglio
Ascoltar quella voce. È orrenda cosa
Ascoltar la sua voce! Oh le tempeste
Inghiottir mi potessero!… L’Eterno
Benedirei. Leoni! anco un istante,
E poi… lunge per sempre.»
Era soletta
Su un veron del palagio Edmenegarda
Co’ suoi mille pensier; torbidi, incerti,
Rapidi, intensi, paventosi, amari;
E, tra quelli, un occulto, un ostinato
Presentimento… ma di tal sventura,
Che nome non avea nella sua mente,
E già stavale in cor.
«Dio degli afflitti!
Non sia ver, non sia ver!»
Morta la luce
Era d’intorno. Ribattevan l’ore
Dalle squille notturne. Ella un acuto
Strido mandò – ché un rumor lieve intese;
E lieve un bacio le sfiorò le chiome.
Vede un’ombra; poi nulla. Intorno getta
Gli occhi smarriti; nulla. A fievol voce
Chiama Leoni; ma nessun risponde.
Era sogno?… Nol sa. Vero?… Ella sente
Sul capo ancora il gel di quelle labbra
Che la baciaro. In sé tutta si stringe
Impäurita; un orrido deserto
Par che la cinga… e il cor le si discioglie,
A groppo a groppo, in un dirotto pianto.
Quante cose in quel punto ella si disse!
Quante più ne pensò! Non è linguaggio,
Non è forma o color che le dipinga.
S’incrociano; si sciolgono; van ratte;
Rivengono più ratte entro la mente
Disperata e confusa; e, in geli e vampe
Tramutandosi, assalgono gli abissi
Miserandi dell’alma, ove al fin regna
In solitaria e paurosa notte
L’insensato dolor. Fûr pochi istanti;
Ma tremendi, ineffabili, nascosi
A umana idea. Traverso a quello spirto
Errava ancora un negro insuperabile
Turbine di memorie, e di pensieri.
Poi languiron le forze della vita;
E sui guanciali in un sopor profondo
Piombò.