Poesie scelte. Giovanni Prati

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Poesie scelte - Giovanni Prati

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infame una viltà non sia.

      Ed ella veramente era tentata

      Di finir quegli spasimi. Ma il forte

      Pensier de’ figli, e una continua speme

      Che il digiuno e la febbre avria consunto

      Quelle estreme reliquie, e il provvidente

      Terror di Dio nel comparirgli innanzi

      Così com’era; e non chiamata; – un freno

      Posero a quella bramosia di morte.

      Ma per quanto ella di pregar tentasse,

      Più pregar non sapeva. Era la sua

      Vita un torbido mar corso dai nembi

      Senza un filo di luce.

      A lui pensava,

      Che credea d’obblïar; pensava a un altro

      Che obblïar non poteva; e con veloce

      Ricordanza crudele e detti e sguardi

      Ricomponendo, e patimenti e gioie,

      Stupida e lassa al suo lavor tornava.

      Degli aurei fregi e delle ricche vesti

      Non possedea più nulla: in sacrificio

      Lieto le offerse, a liberar le fedi

      Da Leoni tradite. E dopo tanto

      E sì intenso patir, – venne quel giorno

      Aspettato e terribile, che all’opra

      Cadder le membra, e il cibo che non manca

      Al più mendico – le mancò. Soccorsi

      Limosinar dal mondo? Oh! pria di farlo

      Era meglio morir. Morir non era

      La gioia sua?…

      Ma la mordente fame

      Vinse i fieri proposti; e ripensando

      Che del molto fallir pena e riscatto

      Esser potea la vita, ella ne volle

      Trangugiar l’amarezza insino al fondo;

      E, offenditrice, il pan del pentimento

      Dimandar dall’offeso.

      «Alle sue soglie

      Ben mi sta ch’io ritorni: ei così smunta

      Mi vedrà!… così debole!… alla terra

      Curvata e supplicante! – Io fui la dolce

      Compagna sua! Gli parlerò d’un tempo,

      Ai nostri cuori memorabil troppo.

      Non dirò nulla; piangerò. Che importa,

      Se quel mio Arrigo io non potrò guardarlo?…

      Parole acerbe ei mi dirà! – ma al prezzo

      Di risparmiar nuovi peccati – il pane

      Non vorrà rifiutarmi. Io non gli chiedo

      Altro che il pane!»

      Alla più dura croce

      Oggi la miseranda anima è posta.

      Ben merita, o Signor, quando ella giunga

      Nel tuo cospetto, che coi tanti giorni

      Di spavento e di colpa, anche quest’ora

      Ella trovi notata.

      In ampio velo

      Chiuse la fronte, e con gli sguardi a terra

      Sforzatamente a quella volta mosse.

      Dopo quattr’anni ripassò per vie

      Non obbliate! da lontan scoperse

      Quella dimora! – entrò per quella soglia!

      Quelle mura conobbe! Ad ogni sguardo

      Una fiera memoria; ad ogni passo

      Un sorvenire, un assalir d’affetti;

      Un acceso disordine; un tumulto

      Vertiginoso. Entrata era felice;

      N’uscìa reietta; vi tornava quasi

      Moribonda di fame. Il cor materno

      Si dilatava, si stringea, spirando

      L’aura spirata da’ suoi dolci figli;

      E così a stento, finalmente venne

      Alle stanze d’Arrigo.

      In fondo egli era,

      Solo e pensoso. Alzò gli sguardi e vide…

      E credea d’ingannarsi; e in piè balzando,

      Un tremito contenne, immobil stette.

      E la guardò.

      La misera prostrata

      Gli era davanti ad aspettar.

      – «Chi siete?…

      Che cercate da me?»

      Levò tremando

      Edmenegarda la consunta faccia,

      E – «Guardatemi! disse. Un dolce nome

      Io portava una volta; a voi dinanzi

      Più recar nol poss’io… Ma ho fame, Arrigo!…

      Sì, guardatemi!… ho fame!»

      «Ah! che i sepolti

      Non han più desiderii; ed è gran tempo

      Ch’ella è sotterra, e disertati e soli

      Qui restiam noi. Vedete quelle stanze?

      Là mi venne rapito, ahi! così presto

      Quel mio tenero fiore. E questi cari

      Li vedete? – appressatevi, infelici

      Orfani miei!» —

      La disperata madre

      Stese le braccia; ma li strinse Arrigo

      Forte sul petto, come per salvarli

      Da quell’amplesso.

      – «Sono miei! Non sono

      D’altri che miei! Partitevi: alle vostre

      Gioie fate ritorno… e non turbate

      Questa dimora ove obblïar si tenta.» —

      Così dicendo, e accortosi che i figli

      Eran vicini a rannodar le sparse

      Reminiscenze dell’amato aspetto,

      Li strappò seco; e si perdea nel vuoto

      Aere il romor dei concitati passi.

      Quella larva s’alzò; segno non fece,

      Non proferse parola; uscì più ratta,

      Qual s’ella avesse il suo vigore antico.

      Gelido un riso le movea dai labbri;

      Sotto l’urto precipite del sangue

      Non vedea più le cose; – e camminava

      Camminava convulsa e strascinata

      Da un’orribile idea.

      Vide una striscia

      D’acque terse e lucenti. Era il canale;

      La meta sua. Con un’ebbrezza intensa

      Girò lo sguardo; misurò quell’acque;

      Doppiò le forze; si cacciò sull’orlo;

      V’inarcò la persona… e già il mortale

      Tratto mancava. – Quando, ai disperati

      Occhi una luce balenò; dischiusa

      Vede una bianca soglia; ode un soave

      Salmodïar di voci; un infinito

      Scoramento la vince; una speranza

      Vien come lampo; quel disegno orrendo

      Torna,

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