Attraverso l’Atlantico in pallone. Emilio Salgari
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Un alto grido scoppia da tutte le parti, e una carica di applausi frenetici rimbomba, coprendo i muggiti delle onde, che si frangono con furore contro la spiaggia, e le grida degli aiutanti.
Quei due ammassi di seta si sono distesi sotto la spinta dell’idrogeno che s’ingolfa attraverso i tubi, e le forme che assumono strappano a tutti grida di meraviglia. Non sono i soliti palloni, che sembrano fiaschi rovesciati: sono due fusi immensi, lunghi quasi quaranta metri, con un diametro di quindici al centro, che si alzano lentamente con un leggero ondeggiamento, tendendo le corde che gli aiutanti, in numero di trenta, tengono con mani robuste.
Al di sotto di quei due fusi, che rammentano le forme dei sigari avana, appeso a una lunga asta che occupa il centro dello spazio lasciato dai due aerostati, ma a una distanza di tre metri dal loro lato inferiore, si agita una specie di battello, lungo trenta piedi, già carico d’una infinità di oggetti, di pacchi, di sacchetti, di botti, di casse, ma costruito d’un metallo leggero e che si direbbe argento. Ancora pochi minuti e quell’immensa macchina spiccherà il volo sopra i flutti muggenti dell’Atlantico.
L’emozione degli spettatori è al colmo. Ognuno dimentica le scommesse e tiene gli occhi fissi su quei due palloni, che sempre più si gonfiano, mentre gli aiutanti eseguono delle manovre misteriose con certe pompe. Si direbbe che iniettino, nell’interno dei due aerostati, un gas speciale o qualche cosa di simile.
Ma quell’emozione prende enormi proporzioni quando si vede apparire l’ardito aeronauta, uscito allora dal caseggiato dove si fabbrica l’idrogeno.
E un bell’uomo sui trentacinque anni, di statura alta, slanciato, con la fronte spaziosa, gli occhi neri e lampeggianti, i lineamenti energici. Indossa un semplice costume di lana bianca ed è seguito da un giovane negro di diciotto o vent’anni, vestito come lui.
Un “hurrah” immenso scoppia: gli spettatori agitano pazzamente i berretti, i cappelli, i fazzoletti.
“Viva Kelly!”
“Viva il Washington!”
“Hurrah…Hurrah!…”
L’ingegnere, giunto in mezzo al recinto, fa spiegare sulla poppa di quell’imbarcazione argentea che deve servirgli da navicella, la bandiera stellata degli Stati dell’Unione, provocando da parte dei suoi compatrioti entusiastici evviva, poi con rapido sguardo esamina il suo magnifico apparecchio aereo, e volgendosi verso il pubblico, dopo aver reclamato con un gesto energico il più assoluto silenzio, dice: “Ho cercato, ma invano, un terzo compagno che mi segua in questo grande viaggio aereo attraverso l’oceano. Se qualcuno di voi si sente il coraggio di salire sul mio Washington, offro un posto.”
Un silenzio glaciale accoglie le parole dell’aeronauta: l’entusiasmo s’è estinto ad un tratto. Gli spettatori si guardano in viso l’un l’altro; ma nessuno emette un sì. Applaudire quel coraggioso, sta bene; ma accompagnarlo, seguirlo sull’oceano su quella macchina capricciosa in balia del vento, per perire forse nei flutti, è un altro affare!
Nessuno si sente in vena di morire per la scienza.
Kelly attende un minuto, poi balza nella navicella, seguito dal giovane negro, gridando: “Pronti al comando!…”
Ad un tratto un uomo si slancia attraverso la massa del pubblico, aprendosi il passo con spinte irresistibili, balza sopra il recinto e si precipita verso l’ingegnere, gridando: “Cercate un compagno: eccomi!”
La folla per un momento raffreddata, si riscalda come per incanto chi è quel giovanotto che osa affrontare la morte? Nessuno lo sa; ma deve essere un coraggioso, e gli audaci sono e devono essere ammirati. Gli “hurrah” prendono proporzioni tali da assordare; gli applausi scoppiano dovunque, tutti agitano i cappelli e i fazzoletti, tutti urlano, si agitano, si dimenano come ossessi.
Ma d’improvviso, mentre l’ingegnere sta per dare il comando di “Via tutti!” e i suoi trenta aiutanti stanno per abbandonare le funi, si odono delle grida di rabbia: “È lui!”, “Addosso, policemen,” “Prendiamolo!”, “Fermate!… Fermate!” Quindici o venti policemen, guidati da alcuni capi, si precipitano nel recinto, correndo verso il pallone, ma ormai è troppo tardi. Il vascello aereo, libero, s’innalza maestosamente, trasportando con sé l’ingegnere, il suo negro e quello sconosciuto, giunto all’ultimo momento.
“Scendete!” gridano i policemen, che sembrano furiosi. Uno di loro con un salto si aggrappa a una fune pendente dalla navicella; ma il vascello aereo, che deve avere una potenza ascensionale immensa, lo trascina con sé.
Il pubblico scoppia in una clamorosa risata. Lo sconosciuto però, che pare si aspettasse un simile colpo di scena, si curva sul bordo della navicella e taglia la fune con un rapido colpo di coltello, facendo capitombolare sconciamente l’agente di polizia, e rovescia sul capo degli altri un sacco di zavorra, accecandoli. Una guardia estrae il revolver e lo punta in alto; ma il pubblico, che s’è riversato nel recinto come una fiumana, glielo strappa di mano, per tema che guasti quella meravigliosa nave aerea. Un ultimo immenso grido riecheggia: “Hurrah! Hurrah per Kelly! Viva il Washington!”
I due palloni erano allora tanto alti che già parevano due sigari: si videro per alcuni istanti rasentare un grande nuvolone che si estendeva sopra l’oceano, poi sparire verso il nord, in direzione di Terranova.
Quasi contemporaneamente una rapida nave a vapore, un incrociatore della Real Marina, usciva precipitosamente da Sidney e si slanciava sulle tracce degli aeronauti.
Capitolo 2. Il Feniano
Kelly aveva tutto osservato: aveva udito le grida di rabbia dei policemen e le intimazioni di scendere, aveva visto il brusco ma fortunatamente troppo tardo assalto e la fulminea manovra dello sconosciuto: ma per il momento non aveva creduto conveniente interrompere la sua partenza e aprire le valvole per tornare a terra. Avrebbe potuto sbarazzarsi di quell’individuo, di quel compagno giunto proprio all’ultimo momento, più tardi, se non fosse stato degno di seguirlo in quel pericoloso viaggio attraverso l’immenso oceano. Non si era occupato quindi di lui e aveva rivolto tutta l’attenzione al suo vascello aereo, al suo superbo Washington, come l’aveva battezzato, il quale continuava ad innalzarsi nello spazio.
L’isola impiccioliva rapidamente sotto di lui, di mano in mano che la distanza cresceva. Gli spettatori sembravano una piccola macchia nera; Sidney una macchia biancastra irregolare; le navi ancorate nel porto piccoli punti scuri; l’isola aveva le dimensioni di un giornale tagliato capricciosamente dalle forbici di un bambino.
A nord si scorgeva Terranova col suo grande banco, cosparso di puntini neri, che dovevano essere le navi occupate alla pesca dei merluzzi; verso l’ovest si disegnavano nettamente le coste della Nuova Scozia e più oltre quelle del New Brunswick, e verso il sud si distinguevano confusamente quelle del Maine, che si perdevano verso il New Hampshire.
Di tratto in tratto si udivano da terra dei sordi rumori che parevano applausi e delle detonazioni. Dopo pochi minuti tutto tacque, e un silenzio profondo regnò nelle alte regioni dell’aria.
Il Washington era ormai salito a 3500 metri e, raggiunta la cosiddetta zona d’equilibrio, filava verso il nord-est, in direzione di Terranova, con un lieve dondolio e con una velocità di trentasei miglia all’ora.
“Tutto va bene,” mormorò l’ingegnere. “Se Dio ci protegge, anche questa grande traversata si compirà.”
Abbandonò il bordo della navicella e guardò i suoi due compagni. Il negro, rannicchiato in un angolo, si teneva strettamente aggrappato