.

Чтение книги онлайн.

Читать онлайн книгу - страница 16

Автор:
Жанр:
Серия:
Издательство:
 -

Скачать книгу

ormai dietro a cumuli di morti che avevano formato dinanzi a loro una nuova trincea. Tutto il bastione era coperto di guerrieri boccheggianti, che gli jatagan degli infedeli s’affrettavano a finire, spaccando loro la gola; di scudi, di elmi, di picche, di alabarde, di spade e di colubrine ormai smontate.

      Il governatore, pallidissimo, senza elmetto, colla cotta di maglia in più punti spaccata dalle armi dei turchi, circondato dai suoi capitani, ben pochi perchè i più erano caduti, cercava di riorganizzare le bande dei marinai veneti e degli schiavoni, per tentare una nuova e più disperata difesa.

      Dietro al bastione si estendeva una vasta piattaforma riparata da un muricciolo, una specie di rotonda che serviva alle esercitazioni dei guerrieri e che aveva ai due lati dei piccoli ridotti.

      Il governatore, vedendo che ormai il bastione era perduto, aveva dato l’ordine di ritirare in quel luogo le colubrine che erano ancora servibili e di fare impeto sui turchi che già salivano la scarpata esterna.

      – Cerchiamo di resistere fino a domani, ragazzi! – aveva gridato il valoroso Baglione. – Avremo sempre tempo per arrenderci.

      Gli schiavoni ed i marinai, quantunque crudelmente decimati da quella lotta sanguinosissima, nonostante la pioggia di palle, avevano messe in salvo otto o dieci colubrine, armando rapidamente i ridotti, mentre i guerrieri cercavano di trattenere per qualche istante gli infedeli, combattendo sopra la cinta del bastione e rovesciando giù per la scarpa i merli che ancora rimanevano ritti.

      In quel momento El-Kadur comparve. Vedendo il signor Perpignano che stava per riordinare la compagnia di Capitan Tempesta, ridotta a meno della metà del suo effettivo, gli si avvicinò.

      – Siamo perduti, è vero? – gli chiese l’arabo.

      Il veneziano, vedendolo solo, aveva fatto un soprassalto.

      – Ed il capitano? – chiese.

      – Ferito, signore.

      – Ti ho veduto portarlo via.

      – Non temete, è in luogo sicuro e, se anche i turchi entrassero in Famagosta, non riuscirebbero a scoprirlo.

      – Dove si trova?

      – Nella casamatta della torre della Bragola, che è quasi interamente sepolta sotto le macerie. Se sfuggirete alla morte venite a trovarci.

      – Non mancherò. Ecco il nemico: guardati, El-Kadur e non esporti troppo. Devi vivere per la salvezza del capitano.

      I guerrieri veneti e gli schiavoni, oppressi dal numero strabocchevole del nemico e stanchi di uccidere, si ritiravano confusamente verso la rotonda, cercando di salvare se non tutti, almeno una parte dei loro feriti.

      Il governatore di Famagosta aveva fortunatamente avuto il tempo di riorganizzare le proprie forze, che si erano accresciute di un certo numero di abitanti.

      I giannizzeri, superata la scarpa che era coperta alla lettera di cadaveri, scavalcavano il parapetto urlando sempre:

      – Morte ai giaurri! Uccidete! Sterminate!

      Al lampeggiare delle artiglierie si vedevano i loro volti raggrinziti per la rabbia e gli occhi feroci, che avevano qualche cosa di fosforescente.

      – A voi, artiglieri! – aveva gridato il governatore, dominando per un istante colla sua voce tuonante, le urla del nemico ed il fragore assordante dei bronzi.

      Le colubrine avvampavano quasi nel medesimo istante, scuotendo il bastione dalla base alla cima e coprendo gli infedeli di mitraglia rovente.

      Tutte le prime file di quei selvaggi guerrieri caddero sui parapetti, stecchite, fulminate da quella tempesta di ferro, ma subito altre si precipitarono all’assalto con foga sfrenata, per non lasciar tempo agli artiglieri di ricaricare i pezzi.

      I guerrieri veneti e gli schiavoni che avevano avuto un momento di respiro, muovevano anche loro alla riscossa.

      Coprendosi coi loro scudi: piombarono a loro volta addosso ai giannizzeri, impegnando una nuova e più furibonda lotta. I capitani erano con loro e li spronavano alla suprema difesa.

      Scrosciavano le scimitarre e le spade sugli scudi e sulle armature, fracassando a poco a poco gli uni e schiodando le altre, tempestavano gli elmetti ed i cimieri, le mazze, rintronando le teste dei colpiti e le alabarde dalla larga punta si cacciavano con furore nelle carni, producendo spaventevoli e per sempre inguaribili ferite.

      Quando fra i combattenti s’apriva un varco, le colubrine tuonavano uccidendo talvolta nemici e anche amici, mentre gli archibugieri, appollaiati sulla cima dei ridotti, mantenevano un fuoco intenso seminando la morte fra le colonne che scalavano le scarpate.

      Più nulla però poteva ormai trattenere quelle masse sterminate che il gran vizir ed i pascià spingevano all’assalto di Famagosta. I forti guerrieri delle lagune venete, esausti da tanti mesi di assedio e dalle lunghe privazioni, cadevano a gruppi sul suolo ormai inzuppato del loro generoso sangue e spiravano col nome di San Marco sulle labbra, che gli jatagan turchi ferocemente soffocavano, squarciando le gole.

      L’agonia di Famagosta era cominciata, preludio di strazi orrendi, che dovevano sollevare un grido immenso d’indignazione fra le nazioni cristiane della vecchia Europa.

      L’Oriente uccideva l’Occidente; l’Asia sfidava la cristianità, facendo sventolare orgogliosamente, dinanzi ad essa, la verde bandiera del Profeta.

      Dappertutto gli infedeli vincevano ormai. Le torri una ad una cadevano nelle mani dei barbari dell’Arabia e delle steppe asiatiche ed i vinti, morti o moribondi, venivano precipitati nei fossati ed i bastioni, ormai diroccati, venivano presi d’assalto.

      Anche quello di San Marco non opponeva più che una debole resistenza. Gli schiavoni ed i veneti, ormai disorganizzati dalle furibonde cariche dei giannizzeri, cominciavano a sbandarsi. Più nessuno obbediva alla voce del governatore, nè a quella dei capitani.

      I morti si accumulavano senza tregua. Al bastione di terra ormai demolito, era succeduto un bastione di carne umana e di ferraglie.

      Una nube immensa, prodotta dal fumo delle artiglierie nemiche, s’abbatteva, come un velo funebre, su Famagosta, avvolgendola tutta.

      Le campane non squillavano più e le preghiere delle donne, raccolte nelle chiese, si perdevano fra il vociare formidabile degli infedeli.

      La marea montava, montava, marea umana ben più terribile di quella dell’oceano e pareva che avesse perfino il suo muggito sinistro.

      I guerrieri asiatici avevano ormai scalate le mura e calavano, come corvi affamati, o meglio come avvoltoi, sopra la città.

      I veneti, gli schiavoni, gli abitanti, che avevano partecipato alla difesa, fuggivano a corsa disperata attraverso le strette vie di Famagosta, cercando di nascondersi fra le macerie delle case, entro le cantine, nelle casematte, nelle chiese, spargendo il terrore colle loro grida di:

      – Si salvi chi può! I turchi! I turchi!

      I soldati che difendevano ancora le cinte e le torri, udendo quelle urla che annunciavano ormai la caduta della salda fortezza, temendo di venire presi alle spalle, a loro volta abbandonavano ogni difesa, rovesciandosi all’impazzata dietro le cinte.

      Nondimeno qua e là, sulle piazze, dietro le case in rovina, sugli angoli delle viuzze, i veneti cercavano di opporre ancora qualche resistenza, per impedire ai turchi

Скачать книгу