I figli dell'aria. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу I figli dell'aria - Emilio Salgari страница 11
– Che cosa stanno facendo quei mostri? – chiese Rokoff, additando gli aguzzini.
– Cercano di prolungare l’agonia alle loro vittime.
– E quale spaventevole supplizio subiscono quei miseri? Forse che stritolano lentamente le loro gambe?
– Peggio ancora, Rokoff. Io ho udito parlare di questa atroce tortura e non vi avevo creduto, tanto mi pareva inverosimile.
– Spiegati, Fedoro, sono un uomo di guerra.
– Sotto quell’assito esiste un fossato…
– E poi?
– Pullulante di topi, di vermi, d’insetti d’ogni specie.
– Ah! Comprendo! – esclamò Rokoff, con orrore. – Essi divorano lentamente le gambe di quei miseri.
– Sì, amico.
– Canaglie! Potevano inventare un supplizio più atroce! E non poter far nulla! Se fossi libero accopperei a calci quei carnefici! Questi cinesi hanno il cuore delle tigri! Andiamocene, Fedoro! Quei lamenti mi straziano l’anima!
– E dove andarcene? Sarei ben lieto di poter uscire; invece, come vedi, la porta è chiusa e solida.
– Ti dico che non voglio rimanere più qui, dovessi spezzarmi le ossa contro queste pareti.
Il bollente cosacco, senza attendere la risposta dell’amico, fidando d’altronde nella sua erculea forza, si scagliò come una catapulta contro la porta, facendola traballare.
– La scardineremo! – gridò. – E allora guai a chi vorrà chiudermi il passo.
Stava per slanciarsi una seconda volta, quando i due battenti s’aprirono violentemente, mostrando il magistrato seguito da quattro soldati armati di fucili colle baionette inastate.
Fedoro ebbe appena il tempo di gettarsi dinanzi all’amico, il quale, reso maggiormente furioso, stava per scagliarsi contro tutti, risoluto ad impegnare una lotta disperata.
– No, Rokoff – disse. – Sarebbero troppo contenti di ucciderci!
– Che cosa fate? – chiese il magistrato. – Ancora una ribellione? Questi europei cominciano a diventare troppo importuni.
– Levateci di qui – disse Fedoro. – Noi non siamo dei cinesi per assistere alle vostre barbarie. Nella vicina tettoia si tormenta e si uccide.
– Sì, dei ribelli che avevano cospirato contro l’impero – rispose il giudice. – Sono cose d’altronde che riguardano noi e non voi.
– Non possiamo resistere a simili infamie. Il giudice alzò le spalle, poi disse:
– Siete aspettati.
– Da chi? Da qualche membro dell’ambasciata? – chiese Fedoro, che aveva avuto un lampo di speranza.
– Non siamo così schiocchi da avvertire il vostro ambasciatore. È il tribunale che vi aspetta per giudicarvi. Abbiamo fretta di vendicare Sing-Sing.
– E di ucciderci, è vero? – chiese Fedoro, sdegnosamente.
– Sì, se siete colpevoli.
– Tu sai meglio di noi che noi non abbiamo commesso quell’abominevole delitto.
– Il tribunale giudicherà. Venite e non opponete resistenza perché i soldati hanno ricevuto l’ordine di fare fuoco su di voi.
– Andiamo – disse Fedoro a Rokoff, dopo avergli tradotto quanto aveva detto il giudice. – Vedremo se il tribunale oserà condannare degli europei senza l’intervento d’un membro dell’ambasciata russa.
Ritenendo inutile ogni protesta e troppo pericolosa una nuova resistenza, seguirono il giudice, attraversando parecchi androni quasi bui, dove non si vedevano altro che gabbie destinate ai prigionieri più ricalcitranti, ed entrarono in una saletta quadrata e bassa, ammobiliata con un lurido tavolo sopra cui si vedeva un tappeto ancor più lurido.
Due giudici, appartenenti probabilmente all’alta magistratura, avendo sui loro conici cappelli di feltro il bottone di corallo con fibbia d’oro, insegna dei mandarini di seconda classe, stavano seduti dinanzi al tavolo.
Erano due panciuti cinesi, dalle facce color del limone, con grandi occhiali di quarzo, vestiti di seta a enormi fiori gialli, rossi e azzurrini.
Presso di loro un cancelliere magro e sparuto, stava sciogliendo un bastoncino d’inchiostro di Cina e preparando dei pennelli, non conoscendo ancora i cinesi la penna o reputandola per lo meno inutile per le loro calligrafie veramente mostruose.
In un angolo invece si tenevano ritti due individui d’aspetto sinistro, che portavano alla cintura certi coltellacci da far rabbrividire. Erano due esecutori della giustizia, pronti a far subire ai condannati i più atroci tormenti, anche lo spaventoso ling-cih o taglio dei diecimila pezzi, riservato ai traditori e ai più pericolosi delinquenti.
Nel vederli, Fedoro aveva provato un lungo brivido.
I due mandarini si sussurrarono alcune parole, guardando di traverso i due europei, poi il più anziano si volse verso Fedoro, chiedendogli:
– Voi comprendete il cinese?
– Sì, ma il mio compagno non parla che il russo, quindi domando che vi sia un interprete dell’ambasciata russa.
– Tradurrete voi; noi non vogliamo stranieri qui, all’infuori dei colpevoli.
– Noi non siamo sudditi cinesi, quindi voi non avete alcun diritto di giudicarci senza la presenza d’un rappresentante del nostro paese.
– Per far intervenire l’ambasciatore e levarvi dalle nostre mani? Oh! Le conosciamo queste cose.
– Io protesto.
– Lo farete poi – disse il mandarino. – Voi siete accusati di aver assassinato Sing-Sing, un fedele suddito dell’Impero.
– Chi lo afferma?
– Tutta la servitù di Sing-Sing ha deposto contro di voi.
– Sono dei miserabili, degli affiliati alla società segreta della «Campana d’argento», che per salvare i veri assassini incolpa noi.
– Sì, sì, la vedremo. Da dove venite voi?
– Io ed il mio amico Rokoff, ufficiale dell’armata russa, siamo sbarcati a Taku sette giorni or sono per venire qui ad acquistare cinquecento tonnellate di tè.
– Siete un negoziante di tè, voi?
– Sì, e la mia casa si trova a Odessa.
– Siete venuto altre volte in Cina?
– Tutti gli anni ci torno.
– E conoscevate Sing-Sing?
– Da molto tempo ed ero suo amico. Quale scopo dovevo dunque avere io per assassinarlo?