I figli dell'aria. Emilio Salgari

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I figli dell'aria - Emilio Salgari

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chiese Rokoff.

      – È la Scisan-ling, ossia dalle tredici fosse – rispose il capitano. – Là vi sono le famose tombe della dinastia dei Ming.

      – E andiamo a vederle?

      – Vi passeremo sopra.

      Si appoggiò al bordo e si rimise a fumare, tenendo gli sguardi fissi sulla collina che pareva si precipitasse incontro allo «Sparviero» con velocità straordinaria.

      Intanto nelle vallette, all’ombra di gruppi di pini e di ginepri, cominciavano ad apparire numerose tombe, appartenenti probabilmente a ricchi personaggi od a principi. Quasi tutte avevano la forma di tartarughe gigantesche, portanti sul clipeo delle tavole di marmo piene d’iscrizioni con ai lati colossali leoni e chimere di bronzo o di pietra bigia.

      Lo «Sparviero», rallentata la corsa, dopo essersi innalzato di altri trecento metri onde poter dominare tutta intera la collina, ridiscese imboccando una stretta valletta che s’inoltrava fra profondi burroni, e si arrestò al disopra d’un vasto spiazzo dove si vedevano delle superbe costruzioni.

      Era il parco sepolcrale dei Ming, uno dei più splendidi che si vedono nel circondario di Pechino.

      Esso si trova a circa quaranta chilometri dalla capitale, in un luogo solitario della catena dei Tiencia, fra gruppi di pini che formano dei bellissimi viali ombrosi e di querce grossissime.

      Vi si penetra per un immenso porticato di marmo bianco, il quale mette in un viale abbellito da statue che rappresentano dei mandarini, dei sacerdoti e dei guerrieri, elefanti, cammelli, leoni, cavalli e liocorni mostruosi, alcuni in piedi ed altri inginocchiati e alti due, tre e perfino quattro metri.

      Vi sono monumenti bellissimi, fra i quali spicca il tempio dei sacrifici sostenuto da sessanta colonne di lauro alte ognuna tredici metri, con una circonferenza di tre.

      Lo «Sparviero» descrisse parecchi giri al disopra del parco, poi deviando bruscamente prese la corsa verso il nord-ovest, attraverso le montagne dei Tiencia.

      Dove andava? Rokoff e Fedoro avrebbero desiderato saperlo, ma non osarono chiederlo.

      Il capitano, d’altronde non pareva disposto a soddisfare la loro curiosità, perché li aveva bruscamente lasciati dirigendosi verso poppa, dove si trovava il macchinista.

      Si sedette dietro la ruota e dopo aver scambiato alcune parole col suo compagno, si era messo a osservare il paese circostante, senza più occuparsi dei suoi ospiti.

      – Ebbene, Fedoro, che cosa ne dici di tutto ciò? – chiese Rokoff. – A me pare di essermi risvegliato in questo momento e d’aver sognato.

      – Anch’io mi domando ancora se sono vivo o morto – rispose il russo. – Vi sono certi momenti in cui dubito di non essere stato ammazzato. Se non avessi veduto coi miei occhi Pechino, mi crederei in un nuovo mondo.

      – Infatti, l’avventura è strana, Fedoro, tale da far impazzire. Trovarci dinanzi alla morte e risvegliarci in aria in viaggio per l’Europa! Quando noi lo racconteremo ai nostri amici, non ne troveremo uno che ci crederà.

      – Mostreremo loro lo «Sparviero».

      – Se ci porterà fino a Odessa. Il capitano ha detto che vuole raggiungere l’Europa, ma non dove ci deporrà – disse Rokoff.

      – E chi credi che sia quell’uomo?

      – Non te lo saprei dire, perché mi ha detto che parla tutte le lingue.

      – Un gran dotto di certo.

      – E anche un originale, Fedoro.

      – E non vuole dirci dove ci trasporterà ora.

      – Attraverso l’Asia.

      – Un, viaggio meraviglioso – disse il russo.

      – Che non mi rincresce affatto – aggiunse Rokoff.

      – E che compiremo presto, perché questa macchina mi pare dotata di una velocità tale da sfidare gli uccelli.

      – Filiamo come le rondini, Fedoro. Guarda come spariscono i campi, i boschi e i villaggi! Questa macchina volante è una vera meraviglia.

      – Purché qualche accidente non le faccia spezzare le ali e ci mandi a fracassarci sulla superficie della terra!

      – Non credo che ciò possa accadere – disse Rokoff. – Questo treno aereo è d’una solidità incredibile. Malgrado lo sforzo poderoso delle macchine, non si sente il più leggero fremito nel fuso. Leggerezza, potenza e solidità! Quel diavolo d’uomo non poteva ottenere di più. Ma e dove andiamo noi? Mi pare che lo «Sparviero» abbia deviato ancora.

      – Si dirige verso quella città che vedo sorgere là in fondo – disse Fedoro.

      – Una città?

      – Forse quella di Tschang-pin, perché alla nostra sinistra vedo un corso d’acqua che deve essere molto voluminoso. Deve essere il Pei-ho.

      – Allora ci dirigiamo al nord.

      – E verso la grande muraglia, ne sono certo – rispose Fedoro. —

      – L’Europa non si trova già al nord.

      – Lo «Sparviero» piegherà poi verso l’ovest.

      – No, signori – disse una voce dietro di loro. – Non ora; più tardi, molto tardi.

      Il macchinista si era accostato loro tenendo fra le labbra una di quelle monumentali pipe di porcellana, usate dagli olandesi e dai tedeschi.

      Il compagno del capitano era un bel giovane di venticinque o ventisei anni, di statura media, muscoloso e ad un tempo di taglia snella, colla pelle assai bruna, gli occhi nerissimi tagliati a mandorla e i capelli ondulati e biondissimi, che portava lunghi.

      Dire a quale razza appartenesse, sarebbe stato molto difficile, perché pareva che i lineamenti degli uomini del nord e del sud si fossero fusi in lui. Aveva del semitico, del greco, del romano e dell’anglosassone. Da quale paese dunque veniva? Che però appartenesse alla razza bianca, malgrado la tinta oscura della sua pelle, non vi era da dubitare.

      – Non piegheremo verso l’ovest? – chiese Rokoff dopo averlo osservato con curiosità.

      – Non per ora – ripeté il macchinista in cattivo russo. – Continueremo dunque la corsa verso il nord.

      – Sì, signore.

      – Allora andremo in Siberia.

      – Non lo so – rispose il giovane, quasi si fosse pentito d’aver detto troppo. – È il capitano che comanda.

      – Eppure ci aveva detto di condurci in Europa – insistette Rokoff.

      – Se lo ha detto, manterrà la parola.

      – È molto tempo che viaggiate? – chiese Fedoro.

      – Molto e poco.

      – Vale a dire?

      – Che non lo so.

      – Ecco

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