I Pirati della Malesia. Emilio Salgari

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I Pirati della Malesia - Emilio Salgari

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ritroveremo a Sarawak – disse Yanez.

      – Lo spero, ma…

      Un grido che veniva dall’alto lo interruppe bruscamente.

      – Eh! Uno steamer all’orizzonte! – aveva gridato un pirata che si teneva a cavalcioni del gran pennone di maestra.

      – Un incrociatore, forse! – esclamò Sandokan il cui sguardo si accese.

      – Da dove viene?

      – Dal nord – rispose il gabbiere.

      – Lo vedi bene?

      – Non scorgo che il fumo e l’estremità dei suoi alberi.

      – Se fosse l’Helgoland! – esclamò Yanez.

      – È impossibile! Verrebbe dall’occidente, non già dal nord.

      – Può aver toccato Labuan.

      – Kammamuri! – gridò la Tigre.

      Il maharatto, che si era issato sul coronamento di poppa, si slanciò giù correndo verso il pirata.

      – Conosci l’Helgoland? – chiese la Tigre.

      – Sì, padrone.

      – Ebbene, seguimi!

      Si slanciarono verso i paterazzi, s’inerpicarono fino alla estremità dell’albero di maestra e fissarono i loro sguardi sulla verdastra superficie del mare.

      7. L’Helgoland

      All’orizzonte, là dove il cielo si confondeva con l’oceano, era quasi improvvisamente apparso un vascello a tre alberi che, quantunque ancora assai lontano, s’indovinava essere di grandi dimensioni. Dal fumaiolo usciva una striscia di fumo nero che il vento portava assai lontano. La sua mole, la sua struttura, i suoi alberi rivelavano subito che quella nave apparteneva alla categoria dei vascelli da guerra.

      – Lo scorgi, Kammamuri? – chiese Sandokan, che fissava il piroscafo con estrema attenzione, come se volesse riconoscere la bandiera che sventolava sul picco della randa.

      – Sì – rispose il maharatto.

      – Lo conosci?

      – Aspettate un poco, padrona

      – È l’Helgoland?

      – Aspettate… mi pare… sì, sì, è l’Helgoland!

      – Non t’inganni?

      – No, Tigre, non m’inganno. Ecco la sua prua tagliata ad angolo retto, ecco là i suoi alberi tutti d’un pezzo, ecco i suoi dodici sabordi. Sì, Tigre, sì, è l’Helgoland!

      Un lampo sinistro guizzò negli occhi della Tigre della Malesia.

      – Là v’è lavoro per tutti! – esclamò il pirata.

      Si aggrappò ad una sartia e si lasciò scivolare fino al ponte. I suoi pirati, che avevano brandite le armi, gli corsero attorno interrogandolo con lo sguardo.

      – Yanez! – chiamò.

      – Eccomi, fratello – rispose il portoghese, accorrendo da poppa.

      – Prendi sei uomini, scendi nella stiva e sfonda i fianchi del praho.

      – Che? Sfondare i fianchi del praho? Sei matto?

      – Ho il mio piano. L’equipaggio del vascello udrà le nostre grida, accorrerà e ci accoglierà come naufraghi. Tu sarai un ambasciatore portoghese in rotta per Sarawak e noi la tua scorta.

      – Ebbene?

      – Ebbene una volta sul vascello, non sarà difficile per uomini come noi impadronircene. Spicciati: l’Helgoland si avanza.

      – Fratello, sei davvero un grand’uomo! – esclamò il portoghese.

      Fece armare dieci uomini e discese nella stiva ingombra di armi, di barilotti di polvere, di palle e di vecchi cannoni che servivano quale zavorra. Cinque uomini si misero a babordo e gli altri cinque a tribordo, con le scuri in mano.

      – Animo, ragazzi – disse il portoghese. – Picchiate sodo, ma che le falle non siano troppo grandi. Bisogna affondare lentamente per non farsi mangiare dai pesci-cani.

      I dieci uomini si misero a picchiare contro i bordi della nave che erano solidi come fossero di ferro. Dieci minuti dopo, due enormi getti d’acqua si precipitavano fischiando nella stiva, dirigendosi verso poppa.

      Il portoghese ed i dieci pirati si slanciarono in coperta.

      – Affondiamo – disse Yanez. – Saldi in gambe, ragazzi, e nascondete le pistole e i kriss sotto le casacche. Domani ne avremo bisogno.

      – Kammamuri – gridò Sandokan, – conduci la tua padrona sul ponte.

      – Dovremo saltare in mare, capitano? – chiese il maharatto.

      – Non c’è bisogno. Se però sarà necessario, m’incarico io di portare la giovanetta.

      Il maharatto si precipitò sotto coperta, afferrò fra le robuste braccia la sua padrona, senza che ella opponesse la minima resistenza, e la portò sul ponte.

      Il piroscafo era lontano un buon miglio, ma si avanzava colla velocità di quattordici o quindici nodi all’ora. Fra pochi minuti doveva trovarsi sulle acque del praho.

      La Tigre della Malesia si avvicinò ad un cannone e vi diede fuoco.

      La detonazione fu portata dal vento fino al vascello, il quale mise subito la prua verso il praho.

      – Aiuto! a noi! – urlò la Tigre.

      – Aiuto! aiuto!

      – Affondiamo!

      – A noi! a noi! – gridarono i pirati.

      Il praho, inclinato a tribordo, affondava lentamente, traballando come fosse ubriaco. Già nella stiva si udiva l’acqua penetrare con sordo rumore attraverso le due spaccature, e i barili urtarsi e spezzarsi contro i cannoni. L’albero di maestra, scavezzato alla base, barcollò un istante, poi precipitò in mare, trascinando nella caduta la gran vela e tutte le sartie.

      – In acqua le artiglierie – comandò Sandokan, che sentiva mancarsi il praho sotto i piedi.

      I cannoni furono gettati in mare, poi i barili di polvere, le palle, le ancore, la zavorra che era in coperta, le gomene e gli alberi di ricambio.

      Sei uomini, afferrati alcuni mastelli, scesero nella stiva per rallentare l’impeto delle acque che entravano con furia rodendo gli orli delle due spaccature..

      Il vascello era giunto allora a trecento metri di distanza e si era arrestato. Sei imbarcazioni montate da marinai si staccarono dai suoi fianchi dirigendosi a tutta velocità verso il praho che affondava.

      – Aiuto! aiuto! – gridò Yanez, che si trovava in piedi sulla

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