I Pirati della Malesia. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу I Pirati della Malesia - Emilio Salgari страница 5
– Una razza che ha un buon nome. Dimmi un po’, ti spiacerebbe esser dei nostri?
– Io, pirata!
– E perché no? Per Giove! Saresti un bravo compagno.
– E se rifiutassi?
– Non risponderei più della tua testa.
– Se si tratta di salvare la pelle, mi farò pirata. Chissà forse è meglio.
– Bravo giovanotto. Olà, Kotta, vammi a cercare una bottiglia di whisky. Gli americani non navigano mai senza una buona provvista.
Un malese di cinque piedi di altezza, con due braccia smisurate, scese nella cabina del povero Mac Clintock e pochi istanti dopo ritornava con un paio di bicchieri e una polverosa bottiglia alla quale aveva fatto saltare il collo.
– Whisky – lesse Yanez sull’etichetta. – Questi americani sono davvero eccellenti uomini. -
Empì due tazze e ne porse una all’indiano, chiedendogli:
– Come ti chiami?
– Kammamuri.
– Alla tua salute, Kammamuri.
– Alla vostra, signor…
– Yanez – disse l’uomo bianco.
E tracannarono d’un fiato i due bicchieri.
– Ora, giovanotto – disse Yanez, sempre di buon umore, – andremo a trovare il capitano Sandokan.
– Chi è questo Sandokan?
– Per Bacco! La Tigre della Malesia.
– E voi mi condurrete da quell’uomo?
– Certo, mio caro, e sarà lieto di ricevere un maharatto. Andiamo, Kammamuri.
L’indiano non si mosse. Pareva imbarazzato e guardava ora i pirati ed ora la poppa della nave.
– Che cos’hai? – chiese Yanez.
– Signor… – disse il maharatto, esitando.
– Parla.
– Non la toccherete?
– Chi?
– Ho una donna con me.
– Una donna! Bianca o indiana?
– Bianca.
– E dov’è?
– L’ho nascosta nella stiva.
– Conducila sul ponte.
– Non la toccherete?
– Hai la mia parola.
– Grazie, signore – disse il maharatto con voce commossa.
Corse a poppa e sparve nel boccaporto. Pochi istanti dopo risaliva sul ponte.
– Dov’è questa donna? – chiese Yanez.
– Sta per venire, ma non una parola, signore. Ella è pazza.
– Pazza!… Ma chi è?
– Eccola! – esclamò Kammamuri.
Il portoghese si volse verso poppa.
Una donna di meravigliosa bellezza, avvolta in un gran mantello di seta bianca, era improvvisamente uscita dal boccaporto arrestandosi presso il tronco dell’albero di mezzana.
Poteva avere quindici anni. La sua persona era elegante, graziosa, flessuosa; la sua pelle rosea, di una morbidezza impareggiabile; gli occhi grandi, neri e d’una dolcezza infinita; il naso piccolo e dritto; le labbra sottili, rosse come il corallo, schiuse ad un ineffabile sorriso, che lasciava scorgere due file di piccolissimi e bianchissimi denti. Una capigliatura opulenta, nerissima, divisa sulla fronte da un fermaglio in cui era incastonato un grosso diamante, le ricadeva sulle spalle in pittoresco disordine, scendendo fino alla cintura.
Ella guardò quegli uomini armati, i cadaveri che ingombravano il ponte e tutti quei rottami, senza che una contrazione di paura, di orrore o di oscurità, si disegnasse sul suo viso gentile.
– Chi è quella donna? – chiese Yanez con strano accento, afferrando una mano di Kammamuri e stringendola forte.
– La mia padrona – rispose il maharatto. – La vergine della pagoda d’Oriente.
Yanez fece alcuni passi verso la pazza che continuava a conservare
l’immobilità di una statua e la guardò fissa.
– Quale rassomiglianza!… – esclamò impallidendo.
Ritornò rapidamente verso Kammamuri e, prendendogli la mano:
– Quella donna è inglese? – chiese con voce alterata.
– È nata in India da genitori inglesi.
– Perché è diventata pazza?
– È una storia lunga.
– La narrerai dinanzi alla Tigre della Malesia. Imbarchiamoci, maharatto, e voi, tigrotti, spogliate per bene questa carcassa e poi incendiatela. La Young-India ha cessato di esistere.
Kammamuri s’avvicinò alla pazza, la prese per mano e la fece scendere nel praho del portoghese. Ella non aveva opposto resistenza, né pronunziato sillaba alcuna.
– Partiamo – disse Yanez, prendendo la ribolla del timone.
Il mare a poco a poco si era calmato. Solamente attorno ai frangenti spumeggiava e muggiva, sollevandosi in larghe ondate.
Il praho, guidato da quegli abili ed intrepidi marinai, superò le scogliere, balzando e rimbalzando sui cavalloni come una palla elastica e s’allontanò con fantastica rapidità lasciandosi dietro una scia candidissima, in mezzo alla quale giocherellavano mostruosi pesci-cani.
In capo a dieci minuti raggiunse la punta estrema dell’isola, la girò senza rallentare la sua velocità, e navigò verso un’ampia baia che aprivasi dinanzi a un grazioso villaggio. Composto di venti e più solidissime capanne, difeso da una triplice linea di trincee armate di grossi cannoni e da numerosissime spingarde, da alte palizzate e da profondi fossati irti di aguzze punte di ferro.
Un centinaio di malesi semi-nudi, ma tutti armati fino ai denti, uscirono dalle trincee e si slanciarono verso la spiaggia, mandando urla selvagge, agitando pazzamente kriss avvelenati, scimitarre, scuri, picche, carabine e pistole.
– Dove siamo? – chiese Kammamuri con inquietudine.
– Nel nostro villaggio – rispose il portoghese.
– È qui che abita la Tigre della Malesia?
– Abita lassù, dove ondeggia