I Vicere. Federico De Roberto
Чтение книги онлайн.
Читать онлайн книгу I Vicere - Federico De Roberto страница 29
«Dov’è quell’altro?…» domandò di botto don Blasco, sbuffante alle elucubrazioni politiche del fratello duca.
«Quell’altro» doveva essere Raimondo; tutti lo compresero, rispondendo che non s’era visto, che forse era rimasto a desinare da qualche amico.
«Avrebbe potuto avvertire…» osservò il principe.
E quantunque quell’osservazione fatta con tono severo, senza riguardo per lei che era sua moglie, ferisse Matilde, un’altra voce ora le diceva: «È vero! Ha ragione!…» Ella stessa, tornata a Firenze, in quell’asilo che le era parso di pace e di felicità, non aveva forse pensato così, quando aspettando lungamente, di giorno e di notte, il ritorno di Raimondo che la lasciava ormai quasi sempre sola, s’era sentita struggere d’ambascia e di paura, non sapendo che cosa gli fosse accaduto, temendo sempre, con l’inferma immaginazione, pericoli e disgrazie? Suo marito, invece, non voleva renderle conto della propria vita, quasi fosse ancora scapolo, quasi ella non avesse nessun diritto su lui, quasi la loro bambina non esistesse! Quella figlia che doveva ancora più stringerli insieme, che per lo meno doveva essere, nel dolore, il gran rifugio della madre, non solo pareva non dir nulla al cuore di Raimondo, ma non bastava neppure a confortare lei stessa, poiché ella non poteva più scusare come nei primi tempi la condotta sempre più sfrenata del marito, poiché non ignorava più che egli la trascurava per altre donne, e poiché questa scoperta le faceva a un tratto sentire il coltello della gelosia… Ancora una volta, le passate sofferenze le erano parse nulla, paragonate a queste altre. Ella lo amava più che mai d’amore, per gli stessi difetti che gli aveva perdonati, per tutto quel che le costava; e le nuove, più brusche, più aperte dichiarazioni con le quali egli respingeva le preghiere di lei e derideva le sue lacrime e le faceva quasi una colpa dell’amor suo, la stringevano a lui sempre più. No, sua figlia non le bastava, la creaturina non poteva consolarla, nessuno al mondo poteva consolarla, ella doveva perfino nascondere le proprie torture al padre, scrivergli che era contenta e felice, perché egli non venisse a chieder conto a Raimondo di quella condotta, perché tra quei due uomini non scoppiasse la guerra!… E ancora una volta s’era messa a sperare nel ritorno in Sicilia; la terribile casa degli Uzeda le parve ancora una volta un’oasi, non avendovi almeno conosciuto il sospetto roditore come un verme. Quando da Catania scrissero a Raimondo di venir presto a casa, quando la stessa madre moribonda lo chiamò, ella fece di tutto per indurlo a partire ma vedendolo sordo alla voce della morente, sordo alle stesse ragioni dell’interesse, restare a Firenze, l’angoscia di lei s’era esacerbata, tanto aveva dovuto credere potenti le ragioni, i legami che lo trattenevano… Giusto in quei giorni le sue viscere avevano avuto un nuovo fremito; ella era madre un’altra volta – fredda, cattiva madre, se non tripudiava a quella scoperta; ma come avrebbe potuto gioirne, quando il padre della sua creatura le cagionava tanta tristezza; quando, all’annunzio della nuova paternità, egli restava indifferente e quasi fastidito come per una nuova molestia?… Repentinamente, giunto il dispaccio che annunziava la morte della principessa, erano partiti, ed ella aveva tratto liberamente il respiro, chiedendo perdono al Signore della gioia che provava per causa d’una morte; ma l’implacata avversione dei parenti l’affliggeva ancora una volta come prova della insospettata malvagità umana; e adesso che Raimondo, senza rispetto per la memoria della madre, faceva ciarlare tutta la città con la sua vita sbrigliata, ella domandava tra sé, con lungo sconforto: «Quando, dove avrò pace?…»
Il desinare era già finito e Lucrezia, la principessa e Consalvo s’erano già levati di tavola, quando Raimondo rientrò. Mostrava di esser molto allegro e d’aver buon appetito. Alla domanda del duca, rispose che gli amici lo avevano trattenuto, che non s’era accorto dell’ora tarda.
«Del resto, qui desinate spaventevolmente presto! Nei paesi civili non si va a tavola prima dell’ave!»
Il principe non rispose. Alzandosi da tavola mentre il fratello divorava la minestra serbata in caldo, disse al duca:
«Zio, vuol venire un momento con me?» e lo condusse nel suo scrittoio.
Stava di nuovo sull’intonato, come se dovesse stipulare un trattato. Chiuso a chiave l’uscio della stanza precedente, offerta una poltrona allo zio, egli stesso in piedi, cominciò:
«Vostra Eccellenza mi scusi se la disturbo dopo tavola, ma dovendo parlare di affari importanti e non volendo portarle via il suo tempo…»
«Ma che!…» fece il duca, interrompendo il preambolo. «Tu non mi disturbi affatto… Parla, parla pure…» e accese un sigaro.
«Vostra Eccellenza può vedere ogni giorno,» riprese il principe, «che vita fa Raimondo, e come, invece di darmi una mano a sistemar gli affari della successione, pensi a divertirsi lasciando tutto sulle mie spalle. Parlargli d’interessi è inutile: o non mi dà retta, o non capisce… o finge di non capire.»
Il duca approvava con un cenno del capo. Tra sé, giudicava veramente un po’ strane quelle lagnanze del nipote, che non avrebbe dovuto esser poi tanto scontento se il fratello non s’impacciava nelle quistioni dell’eredità e lo lasciava libero di fare a sua posta. E se Raimondo mostrava poca premura di partecipare agli affari, il fratello maggiore non ne aveva mostrata pochissima di renderne conto al coerede ed ai legatari? Non era forse quella la prima volta che egli teneva a qualcuno della famiglia un discorso di quel genere?
«Ora,» continuava frattanto Giacomo, «io credo prima di tutto conveniente, nell’interesse comune, che la divisione si faccia al più presto; in secondo luogo bisogna che tutti sappiano ciò che ho saputo in questi giorni io stesso…»
«Che cosa?»
«Una bella cosa!» esclamò, con un sorriso amarissimo. E dopo una breve pausa, quasi a preparar l’animo dello zio alla dolorosa notizia: «L’eredità di nostra madre è piena di debiti…»
Il duca si cavò il sigaro di bocca dallo stupore.
«Vostra Eccellenza non crede? E chi avrebbe potuto credere una cosa simile? Dopo che abbiamo sentito tanto lodare, da tutti, il modo ammirabile tenuto dalla felice memoria nel mettere in piano la nostra casa? Invece, c’è un baratro!… Fin all’altr’ieri, non sospettavo ancora nulla. È vero che nei primi giorni dopo la disgrazia ebbi avviso di alcuni piccoli effetti sottoscritti da nostra madre, i possessori dei quali, durante la malattia, avevano pazientato oltre la scadenza; ma credevo naturalmente che fossero infime somme, di quei debitucci che tutti, in certi momenti, anche i più facoltosi, hanno bisogno di contrarre. Potevo sospettare che invece sono migliaia e migliaia d’onze, e che ogni giorno spunta un nuovo creditore, e che se continua di questo passo, il meglio dell’eredità se n’andrà in fumo?…»
«Ma il signor Marco…»
«Il signor Marco,» riprese il principe senza dar tempo allo zio di compiere l’obiezione, «ne sapeva meno di me ed è più sbalordito di Vostra Eccellenza. Vostra Eccellenza sa bene che carattere avesse la felice memoria, e come facesse in tutto di suo capo, e si nascondesse non solamente da coloro che dovevano essere i suoi naturali confidenti, ma da quegli stessi nei quali aveva riposto fiducia… Il signor Marco non ha notato nel suo scadenziere neppure la decima parte delle somme di cui adesso siamo debitori. Io non so che pasticci ci sieno sotto. S’immagini che esistono effetti scaduti da tre, da quattro anni, e anche da cinque!… Le confesserò che, sul principio, ho temuto d’esser vittima,