I Vicere. Federico De Roberto

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I Vicere - Federico De Roberto

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o qualunque altro sentimento per lei come per ogni persona, tanto la naturale indolenza e il bisogno d’isolamento e la soggezione in cui la teneva il marito la rendevano indifferente a tutto ed a tutti fuorché ai propri figli.

      Quel pomeriggio appunto, dopo tavola, la balia era venuta a dirle che la bambina tossicchiava un poco; cosa da nulla, certo; ma ella se n’era inquietata, e la cugina, trovata quella dispiacevole novità, faceva sfoggio della sua scienza medica, consigliando la somministrazione di polveri e di decotti alla figlioccia, assicurando però che il male non era grave, sgridando nondimeno la balia che aveva dovuto lasciare il balcone aperto.

      Raimondo, che d’ordinario scappava via appena finito di prendere un boccone, pareva volesse restare in casa, per suo piacere; e Matilde, tutta riconfortata, dimenticata a un tratto la tristezza di un’ora innanzi, lo seguiva con lo sguardo ridente. Era così fatta che una parola, un nulla la turbavano e la rassicuravano: e chiedeva tanto poco per essere felice! Se egli fosse stato sempre così, se avesse dedicato una parte del suo tempo alla famiglia, se avesse prodigato alla sua bambina le carezze che quella sera faceva al principino!… Questi, nel gruppo degli uomini, ripeteva le declinazioni al cavaliere don Eugenio, il quale s’era costituito suo maestro, tra gli applausi dei lavapiatti ad ogni risposta azzeccata; ma cominciando a confondersi, ad imbrogliarsi:

      «E non lo tormentare più, povero bambino!» esclamò donna Ferdinanda. «Qui, con la zia! Ti rompono la testa con tutte queste storie, eh? Rispondi loro: “Debbo forse fare il mastro di penna?”»

      Don Eugenio, udendo disprezzare le belle lettere, rispose:

      «Bisogna studiare, invece!… L’uomo tanto più vale quanto più sa! E poi bisogna che tu faccia onore al nome che porti; tra i tuoi antenati c’è don Ferrante Uzeda, gloria siciliana!»

      «Don Ferrante?» esclamò la zitellona. «Che fece don Ferrante?»

      «Come, che fece? Tradusse Ovidio dal latino, commentò Plutarco, illustrò le antichità patrie: templi, monete, medaglie…»

      «Aaah!… Aaah!…» Donna Ferdinanda era scoppiata in una risata che non finiva più, che si risolveva in spruzzi di saliva tutto in giro. Il cavaliere rimase a bocca aperta, don Cono non sapeva che viso fare.

      «Aaah!… Aaah!…» continuava a ridere donna Ferdinanda. «Don Ferrante! Aaah!… Don Ferrante sai che fece?…» spiegò finalmente, rivolta al nipotino. «Teneva quattro mastri di penna, pagati a ragione di due tarì il giorno, i quali lavoravano per lui; quando essi avevano scritto i libri, don Ferrante ci faceva stampare su il proprio nome!… Aaah! Che sapesse leggere, ci ho i miei bravi dubbi!…»

      Allora s’impegnò una gran discussione. Don Cono e il cavaliere sostenevano, a vicenda, che se l’antenato non aveva scritto materialmente le sue opere, ne aveva però dettato il contenuto; tanto è vero che le accademie di Palermo, Napoli e Roma lo avevano annoverato tra i loro soci; ma la zitellona interrompeva: «Fatemi il piacere!…» intanto che la cugina, scrollando il capo, affermava che, veramente, gli studi non erano stati il forte dell’antica nobiltà.

      «Il forte?» esclamava la zitellona. «Ma fino ai miei tempi era vergogna imparare a leggere e scrivere! Studiava chi doveva farsi prete! Nostra madre non sapeva fare la propria firma…»

      «Era forse una bella cosa?» obiettò don Eugenio.

      «Non mi parlare anche tu del progresso!» saltò su donna Ferdinanda. «Il progresso importa che un ragazzo debba rompersi la testa sui libri come un mastro notaio! Ai miei tempi, i giovanotti imparavano la scherma, andavano a cavallo e a caccia, come avevano fatto i loro padri e i loro nonni!…»

      E mentre don Mariano approvava, con un cenno del capo, la zitellona si mise a tesser l’elogio di suo nonno, il principe Consalvo vi, il più compito cavaliere dei suoi tempi. Aveva avuto una così grande passione pei cavalli, che, d’inverno, ogni anno, si faceva costruire un passaggio coperto in mezzo alla pubblica via, affinché i suoi nobili animali restassero sempre all’asciutto.

      «E le altre persone potevano passarci?» domandò il principino.

      «Potevano passarci quando non era l’ora della passeggiata del principe,» rispose donna Ferdinanda. «Se usciva lui, tutti si tiravano da parte!… Una volta che il capitano di giustizia con la carrozza propria ardì passar innanzi alla sua, sai che fece mio nonno? Lo aspettò al ritorno, ordinò al cocchiere di buttargli addosso i cavalli, gli fracassò il legno e gli pestò le costole!… Si facevano rispettare i signori, a quei tempi… non come ora, che dànno ragione agli scalzacani!…»

      La botta era tirata al duca che rientrava in quel momento nella Sala Gialla insieme col principe. Don Blasco, interrotta finalmente la sua corsa, piantò gli occhi addosso al fratello e al nipote.

      «Che diavolo hai fatto?» disse al principe.

      «Nulla… avevo certe notizie da domandare allo zio…»

      Sopravvennero in quel momento Chiara e il marchese. Lucrezia, ancora imbronciata, salutò freddamente la sorella; ma costei non s’accorgeva di nulla, nervosa com’era, tutta piena d’una secreta idea.

      «Margherita,» sussurrò alla cognata, in confidenza, «questa volta credo sia per davvero!…» Erano quelli i sintomi? Poteva ingannarsi? Tante volte aveva sperato d’apporsi e festeggiato invano l’avvenimento, che adesso non ardiva più annunziare apertamente la gravidanza se non prima la vedeva confermata. Poi, lasciata la principessa, prese a parte Matilde e ricominciò a dirle: «La levatrice n’è certa! Tu che cosa provi?… Come ti sei accorta?…»

      Matilde non l’udiva. Adesso che don Blasco non misurava più la sala da un’estremità all’altra, Raimondo aveva ricominciato l’armeggio dello zio monaco, non stava fermo un momento, chiedeva continuamente che ora fosse. Voleva andar fuori? Aspettava qualcuno? Ella era inquieta della sua inquietudine… Frattanto arrivavano nuove visite: la duchessa Radalì e il principe di Roccasciano, donna Isabella Fersa col marito. L’entrata di quest’ultima mise sottosopra la società: il principe, che ordinariamente non era molto galante con le signore, le andò incontro fino nell’anticamera; Raimondo anche lui l’ossequiò tra i primi. Ella portava, come sempre, un abito nuovo fiammante che Lucrezia esaminava ora con la coda dell’occhio, e la principessa, Chiara, tutte le altre, giudicavano a una voce elegantissimo.

      «Manifattura di Firenze, è vero, donn’Isabella?» domandò Raimondo.

      «Si vede che vostro marito se ne intende, contessa!» rispose ella indirettamente, volgendosi a Matilde.

      Don Mariano parlava della parata della Regina, di cui quel giorno era il natalizio; Fersa del colera, della quarantena di dieci giorni decretata allora allora contro le provenienze da Malta, della fiera di Noto rimandata, del pericolo che correva un’altra volta la Sicilia; e il vocione di don Blasco rispondeva:

      «Questa è l’impresa di Crimea! Il regalo dei fratelli piemontesi, capite?»

      Il duca, quasi non comprendesse che l’allusione era diretta a lui, ripigliava il discorso della guerra interrotto a tavola, diceva che Cavour l’aveva sbagliata. La via era un’altra, raccogliersi, restarsene tranquilli, curare le piaghe del ‘48. Con lo stato indebitato fin agli occhi, come poteva pensare a fare nuovi debiti? «È un principio d’economia politica…» e qui, col tono d’autorità portato da Palermo, un discorsone che faceva inghiottire botti di veleno a don Blasco, lardellato com’era di citazioni giornalistiche e parlamentari, infettato da teorie liberalesche. Il principe, udendo Fersa esprimere ancora una grande paura del colera, scrollava il capo:

      «Se a Napoli hanno ordinato di spargerlo un’altra volta…»

      Come

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