Il re del mare. Emilio Salgari

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Il re del mare - Emilio Salgari

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      Emilio Salgari

      IL RE DEL MARE

      PARTE PRIMA. La Malesia in fiamme

      1. L’assalto della Marianna

      – Dunque, si va avanti sì o no? Corpo di Giove! È impossibile che noi siamo caduti come tanti stupidi su un banco.

      – È impossibile avanzare, signor Yanez.

      – Che cos’è dunque che ci ha fermati?

      – Non lo sappiamo ancora.

      – Per Giove! Era ubriaco il pilota? Bella fama che si acquistano i malesi! Ed io che li avevo creduti, fino a stamane, i migliori marinai dei due mondi!

      Sambigliong, fa’ spiegare dell’altra tela. Il vento è buono e chissà che non riusciamo a passare.

      – Non faremo nulla, signor Yanez, perchè la marea cala rapidamente.

      – Che il diavolo si porti all’inferno quell’imbecille di pilota!

      L’uomo che così parlava, si era voltato bruscamente verso la poppa colla fronte aggrottata e il viso alterato da una collera violentissima. Quantunque avesse varcata, e forse di qualche anno, la cinquantina, era ancora un bell’uomo, aitante, con lunghi baffi grigiastri accuratamente arricciati, la pelle leggermente abbronzata, con lunghi capelli che gli sfuggivano al di sotto di un ampio cappello di paglia di Manilla, somigliante ad un sombrero messicano, adorno d’un gallone di velluto azzurro con nappine.

      Vestiva con molta eleganza, di flanella bianca, con bottoni d’oro e portava alla cintura una larga fascia di velluto rosso, reggente un paio di pistole dalla canna lunga e rabescata ed il calcio con intarsi d’argento e di madreperla, armi senza dubbio di fabbrica indiana, e calzava alti stivali di mare, di pelle gialla, colla punta un po’ rialzata.

      – Pilota! – gridò.

      Un malese, dalla pelle quasi fuligginosa, con riflessi color del mattone, gli occhi un po’ obliqui che avevano un lampo giallastro che produceva uno strano effetto su chi lo vedeva, a quella chiamata, aveva abbandonata la ribolla del timone che fino allora aveva tenuta e si era accostato a Yanez con un fare sospettoso che tradiva una coscienza poco tranquilla.

      – Padada, – disse l’europeo con voce secca, mentre appoggiava la destra sul calcio d’una delle due pistole. – Come va questa faccenda? Parmi avessi detto che conoscevi tutti i passi della costa bornese ed è solo per ciò che io ti ho imbarcato.

      – Ma, signore… – balbettò il malese con aria imbarazzata.

      – Che cosa vuoi dire? – chiese Yanez che forse, per la prima volta in vita sua, pareva avesse perduta la sua flemma abituale.

      – Questo banco non esisteva prima.

      – Briccone, vuoi tu che sia sorto stamane dal fondo del mare? Sei un imbecille! Tu hai dato un colpo falso di barra per arrestare la Marianna.

      – A quale scopo, signore?

      – Che ne so io? Potrebbe darsi che tu fossi d’accordo con quei misteriosi nemici che hanno sollevato i dayaki.

      – Non ho avuto altri rapporti che coi miei compatriotti, signore.

      – Credi che ci potremo disincagliare?

      – Sì, all’alta marea.

      – Vi sono molti dayaki sul fiume?

      – Non credo.

      – Sai che abbiano buone armi?

      – Non ho veduto presso di loro che qualche fucile.

      – Chi può essere stato a sollevarli? – borbottò Yanez. – Vi è un mistero qui sotto che io non riesco a spiegare, quantunque la Tigre della Malesia si ostini a vedere in tutto ciò la mano degli inglesi. Speriamo di giungere in tempo e di ricondurre Tremal-Naik e Darma a Mompracem, prima che i ribelli invadano le loro piantagioni e distruggano le loro fattorie. Vediamo se possiamo lasciare questo banco prima che la marea abbia raggiunto la sua massima altezza.

      Volse le spalle al malese e si diresse verso prora, curvandosi sulla murata del castello.

      La nave che aveva dato in secco, probabilmente in causa d’una falsa manovra, era uno splendido veliero a due alberi, costruito di certo da poco tempo a giudicarlo dalle sue linee ancora perfette, con due immense vele simili a quelle che portano i grossi prahos malesi. Doveva stazzare non meno di duecento tonnellate ed aveva un armamento da renderlo temuto anche a qualche piccolo incrociatore.

      Infatti, aveva sul cassero due pezzi da caccia di buon calibro, protetti da una barricata mobile formata da due grosse lastre di acciaio congiunte ad angolo e sul castello di prora quattro lunghe e grosse spingarde, armi eccellenti per mitragliare i nemici, quantunque di corta portata.

      Inoltre aveva un equipaggio numeroso, fin troppo per un legno così piccolo, formato da una quarantina di persone, malesi e dayaki, per la maggior parte attempati ma ancora solidi, dai visi fierissimi e con non poche cicatrici, ciò che indicava come quegli uomini fossero gente di mare e anche di guerra.

      La nave si era arrestata all’entrata d’una vasta baia, entro cui sboccava un fiume che pareva abbondante d’acqua.

      Numerose isole, fra cui una grandissima, riparavano la baia dai venti di ponente, tutte cinte di scogliere corallifere e di banchi e coperte da una vegetazione foltissima d’un bel verde intenso.

      La Marianna si era arenata su uno di quei banchi che le acque nascondevano e che, in quel momento, cominciava ad apparire, continuando la marea ad abbassarsi.

      La ruota di prora aveva toccato molto profondamente, in modo da rendere impossibile lo scagliamento col solo mezzo delle àncore gettate a poppavia e alate all’argano.

      – Cane d’un pilota! – esclamò Yanez, dopo d’aver osservato attentamente il banco. – Non ce la caveremo prima di mezzanotte. Che cosa ne dici, Sambigliong?

      Un malese che aveva il viso assai rugoso ed i capelli biancastri, e che tuttavia sembrava ancora robustissimo, si era accostato all’europeo:

      – Dico, signor Yanez, che nessuna manovra riuscirebbe a toglierci di qui senza l’aiuto dell’alta marea.

      – Hai fiducia in quel pilota?

      – Non so, capitano, – rispose il malese, – non avendolo mai veduto prima d’ora. Nondimeno…

      – Continua, – disse Yanez.

      – Quello d’averlo trovato solo, così lontano da Gaya, in un canotto incapace di resistere ad un’ondata e di essersi subito offerto di guidarci, non mi pare chiaro.

      – Che abbia commesso una imprudenza ad affidargli il timone? – si chiese Yanez, che era diventato pensieroso.

      Poi, scuotendo il capo come se avesse voluto scacciare lungi da sè un pensiero importuno, aggiunse:

      – Per quale scopo quell’uomo, che appartiene alla vostra razza, avrebbe cercato di perdere il migliore e più poderoso praho della Tigre della Malesia? Forse che noi non abbiamo sempre protetti gli indigeni bornesi contro le vessazioni degli inglesi? Forse che non abbiamo rovesciato James Brooke per ridare l’indipendenza ai dayaki di Sarawak?

      – E

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