Il re del mare. Emilio Salgari
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Il piccolo veliero non era ormai che un rottame che si empiva rapidamente d’acqua. Gli uomini che erano sfuggiti a quella tremenda bordata, si erano gettati in mare e nuotavano verso le scialuppe, mentre i pontoni tiravano furiosamente coi lilà con non troppa fortuna, quantunque la Marianna, colla sua mole ed immobilizzata come era, offrisse un ottimo bersaglio.
Ad un tratto il legno si capovolse bruscamente, rovesciando in acqua morti e feriti e rimase colla chiglia in aria.
Urla feroci s’alzarono dalle scialuppe, vedendo il praho andarsene alla deriva in quello stato.
– Gridate come oche, – disse Yanez. – Ci vuole ben altro per vincere le tigri di Mompracem, miei cari. Fuoco sulle scialuppe! Avanti, fucilieri! L’affare diventa caldo.
Sebbene privati del praho che col suo pezzo poteva contrabbattere i cannoni da caccia, la flottiglia aveva ripreso la corsa e s’avvicinava rapidamente alla Marianna.
Le tigri di Mompracem non facevano economia nè di palle nè di polvere. Colpi di cannone e di spingarda si alternavano a nutrite scariche di fucileria che facevano dei larghi vuoti fra gli equipaggi delle scialuppe e dei pontoni.
Quei vecchi guerrieri, che un giorno avevano fatto tremare gli inglesi di Labuan, che avevano vinto e rovesciato James Booke, il rajah di Sarawak, e che avevano distrutti, dopo formidabili combattimenti, i terribili thugs indiani, si difendevano con accanimento ammirabile, senza nemmeno prendersi la briga di ripararsi dietro i bordi.
Anzi, sprezzanti d’ogni pericolo, nonostante i consigli del portoghese che ci teneva a conservare i suoi uomini, erano saliti tutti sulle murate per mirare meglio e di là, e anche dalle coffe, facevano un fuoco infernale sulle scialuppe, decimando crudelmente i loro equipaggi.
Gli assalitori però erano così numerosi, che quelle gravi perdite non li scoraggiavano. Altre scialuppe, uscite dal fiume, avevano raggiunta la flottiglia e anche quelle cariche di guerrieri. Erano almeno trecento selvaggi, sufficientemente armati, che muovevano all’abbordaggio della Marianna, risoluti, a quanto pareva, ad espugnarla e massacrare i suoi difensori fino all’ultimo, non potendosi sperare quartiere da quei barbari sanguinari che non hanno che un solo desiderio: quello di fare raccolta di crani umani.
– La faccenda minaccia di diventare seria, – mormorò Yanez, vedendo quelle nuove scialuppe. – Tigrotti miei, date dentro più che potete o noi finiremo per lasciare qui le nostre teste. Quel cane d’un pellegrino li ha fanatizzati per bene e li ha fatti diventare idrofobi.
S’accostò al pezzo da caccia di tribordo, che in quel momento era stato scaricato e allontanò Sambigliong che stava pigliando la mira.
– Lascia che mi scaldi un po’ anch’io, – disse. – Se non sfasciamo i pontoni e mandiamo in acqua i loro lilà, fra tre minuti saranno qui.
– Le spine li tratterranno, capitano.
– Eh, non so, mio caro. I loro kampilang avranno buon gioco.
– Ed i nostri gabbieri non ne avranno meno colle loro granate.
– Sia, ma preferisco che non giungano qui.
Diede fuoco al pezzo e, come al solito, non mancò il colpo. Uno dei pontoni, formati da due scialuppe riunite da un ponte, andò a catafascio. Le prore, spaccate a livello d’acqua, in un momento si riempirono ed il galleggiante affondò.
Un secondo fu pure gravemente maltrattato, ma al terzo colpo di cannone sparato da Yanez le scialuppe erano già quasi sotto.
– Impugnate i parangs e portate le spingarde a poppa! – gridò, abbandonando il pezzo che ormai diventava inutile. – Sgombrate la prora!
In un baleno quei comandi furono eseguiti. I fucilieri si ammassarono sul cassero, lasciando soli i gabbieri nelle coffe, mentre Sambigliong con alcuni uomini sfondava a colpi di scure due casse lasciando scorrere per la coperta una infinità di pallottoline d’acciaio irte di punte sottilissime.
I dayaki, resi furiosi dalle gravi perdite subite, avevano circondata la Marianna urlando spaventosamente e cercavano di arrampicarsi, aggrappandosi alle bancazze, alle sartie, ai paterazzi ed alla dolfiniera del bompresso.
Yanez aveva impugnata una scimitarra e si era messo in mezzo ai suoi uomini.
– Stringete le file attorno alle spingarde! – gridò.
I fucilieri che stavano presso le murate non avevano cessato il fuoco, fulminando a bruciapelo i dayaki dei pontoni e quelli che cercavano di montare all’abbordaggio.
Le canne dei fucili e delle carabine indiane erano diventate così ardenti che scottavano le mani dei tiratori.
I dayaki arrivavano, inerpicandosi come scimmie. Ad un tratto atroci urla di dolore scoppiarono fra gli assalitori.
Avevano posate le mani sui fasci di spine che coprivano le murate e che erano dissimulati dalle brande stese sopra i bastingaggi, straziandosi orribilmente le dita e non reggendo a così atroce dolore si erano lasciati cadere addosso ai compagni, travolgendoli nella loro caduta.
Se non erano pel momento riusciti a scavalcare le murate di babordo e di tribordo, quelli che si erano issati sulle trinche del bompresso, erano stati invece più fortunati, avendo trovato subito un appoggio sull’albero istesso.
Accortisi delle spine, a gran colpi di kampilang staccarono i fasci gettandoli in mare, ed in dieci o dodici irruppero sul castello di prora mandando urla di vittoria.
– Dentro colle spingarde! – gridò Yanez che li aveva lasciati fare.
Le quattro bocche da fuoco lanciarono una bordata di chiodi su quel gruppo, spazzando tutto il castello.
Fu una scarica terribile. Nessuno degli assalitori era rimasto in piedi, quantunque non vi fosse nemmeno un morto.
Quei disgraziati, che avevano ricevuto in pieno quella bordata, si rotolavano pel castello, dibattendosi e mandando urla spaventevoli e gemiti strazianti.
I loro corpi, foracchiati in cento luoghi dai chiodi, parevano schiumarole gocciolanti sangue.
La vittoria era nondimeno ancora ben lungi. Altri dayaki salivano da tutte le parti, disperdendo prima le spine coi kampilang e rovesciandosi in coperta, malgrado il fuoco vivissimo delle tigri di Mompracem.
Là un altro ostacolo però, non meno duro delle spine, attendeva gli assalitori: erano le pallottole d’acciaio che coprivano tutta la tolda e le cui punte non si potevano sfidare senza i pesanti stivali di mare.
Per di più, i gabbieri delle coffe avevano cominciato a lanciare le granate che scoppiavano con fragore, lanciando intorno frammenti di metallo.
I dayaki, presi fra due fuochi, impossibilitati ad avanzare, si erano arrestati; poi un subitaneo terrore, accresciuto da un’altra bordata di mitraglia che ne gettò a terra parecchi, li prese e si precipitarono confusamente in acqua, nuotando disperatamente verso i pontoni e le scialuppe.
– Pare che ne abbiano finalmente abbastanza, – disse Yanez, che durante la lotta non aveva perduto un atomo della sua flemma. – Ciò v’insegnerà a temere le vecchie tigri di Mompracem.
La disfatta degli isolani era completa. Pontoni e scialuppe fuggivano a forza di remi verso le isolette che si estendevano dinanzi al fiume, senza più