Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. Emilio Salgari

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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero - Emilio Salgari

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«Se il governatore non l’ha condotta con sé…»

      «Di questo son certo» disse il piantatore.

      «Allora deve essere ancora qui. Dove? A voi il dircelo».

      Don Raffaele era rimasto silenzioso, colla fronte stretta fra le mani, come se pensasse profondamente. Ad un tratto si alzò dicendo:

      «Sì, non può essere stata affidata che al capitano Valera».

      «Chi è costui?» chiese Carmaux.

      «Un intimo amico del conte di Medina e un po’ anche la sua anima dannata».

      «Dove abita?»

      «Nel convento dei Carmelitani».

      «Non sarà fuggito?»

      «Si sarà invece nascosto nei sotterranei che sono immensi e che si dice comunichino colla laguna».

      «Che uomo è?»

      «Un valoroso, capace di difendere a lungo la preda affidatagli».

      «Non perdiamo tempo» disse Carmaux. «Se i sotterranei comunicano col lago, quel furfante potrebbe questa sera prendere il largo colla fanciulla».

      «Avvertiamo il capitano» disse Wan Stiller.

      «E prendete con voi degli altri uomini» disse don Raffaele.

      «Siamo già in troppi noi due» rispose Carmaux. «Sappiamo maneggiare la spada come veri gentiluomini, è vero Wan Stiller?»

      «Siamo allievi del Corsaro Nero, la prima e la più famosa lama della Tortue» rispose l’amburghese.

      «Su in cammino» disse Carmaux.

      Vuotarono l’ultima bottiglia e uscirono.

      Due filibustieri carichi di vasi di argento e di arredi sacri, che avevano probabilmente rubati in qualche chiesa vicina, passavano in quel momento dinanzi alla taverna.

      «Ohe, camerati» gridò loro Carmaux. «Avvertite senza ritardo il capitano Morgan che siamo sulle tracce della figlia del Corsaro Nero e che non s’inquieti se tarderemo a tornare».

      «Buona fortuna, Carmaux» risposero i due corsari, allontanandosi velocemente.

      «Guidateci don Raffaele e non dimenticatevi che la vostra vita sta nelle mani della signora di Ventimiglia».

      «Lo so» rispose il piantatore, con un sospiro che veniva proprio dal cuore, «e farò il possibile per salvarla».

      Si diresse verso una viuzza che doveva essere qualche scorciatoia, aperta fra una piantagione d’indaco e di canne da zucchero, facendo segno ai due filibustieri di seguirlo.

      Dopo aver percorsi parecchi viottoli che separavano le ultime case della città dalle piantagioni e dalla laguna, don Raffaele si arrestò dinanzi ad un vecchio palazzo annerito dal tempo e che era sormontato da due torrette munite di campane.

      «Il convento dei Carmelitani» disse.

      «Sembra che sia stato lasciato dai suoi abitanti» disse Carmaux, che aveva osservato che la porta era aperta.

      «Tutti sono fuggiti. Voi sapete che i corsari inglesi non risparmiano i nostri frati».

      «È vero» rispose Wan Stiller.

      «Entriamo?» chiese il piantatore.

      «Perbacco!» esclamò Carmaux. «Voglio vedere quel bravo capitano, se ci sarà ancora».

      «Sono certo che non è fuggito».

      Spinsero la porta ferrata che era socchiusa e si trovarono in una sala vastissima, in una specie di chiesa con alcuni altari e molte torce.

      Quantunque i filibustieri di Morgan non fossero giunti fino là, vi regnava un gran disordine. Banchi e sedie erano stati gettati sossopra; gli altari erano stati frettolosamente spogliati di quanto avevano di più prezioso ed in terra si vedevano quadri d’immagini sacre e crocifissi.

      «È vasto questo monastero?» chiese Carmaux.

      «Assai» rispose don Raffaele. «Ritengo però inutile frugare le sale e le celle. Se il capitano si trova ancora qui, si sarà nascosto nei sotterranei».

      «Dove si trovano?»

      Don Raffaele indicò un angolo della chiesa:

      «Sotto quella pietra».

      «Che abbia dei compagni il vostro capitano?»

      «Lo ignoro».

      «Ah! diavolo!» esclamò Carmaux. «Forse siamo stati imprudenti a non prendere con noi un rinforzo! Che cosa ne dici, amburghese?»

      «Dico che siamo solidi e ben armati» rispose Wan Stiller, «e che non è questo il momento di rimandare l’impresa».

      «Tu parli come un libro stampato, compare. Giacché abbiamo cominciato, checché debba succedere, dobbiamo condurlo a termine».

      Raccolse da terra un grosso cero, subito imitato dall’amburghese, l’accese e si diresse verso l’angolo indicato dal piantatore.

      «Spero, don Raffaele» disse, «che non ci attirerete in qualche agguato. Io andrò innanzi, ma il mio compagno vi terrà dietro colla spada in mano e vi avverto che quando vibra un colpo inchioda un uomo come uno scarafaggio».

      Il piantatore fece un cenno affermativo col capo e si asciugò il sudore che gli bagnava la fronte.

      Entro una specie di nicchia si vedeva una pietra circolare, fornita d’un anello di ferro, che pareva l’ingresso di una tomba. Ed infatti si vedevano delle lettere incise sulla lastra e anche uno stemma, che rappresentava due leoni rampanti su una fascia diagonale.

      «Qui» disse il piantatore con voce soffocata.

      Carmaux passò la canna dell’archibugio nell’anello e aiutato dall’amburghese levò e rovesciò la pietra.

      Un tanfo di muffa e d’aria corrotta sfuggì dal foro, facendo indietreggiare i due corsari.

      «Un rifugio punto profumato» disse Carmaux. «Possibile che quel capitano si sia rifugiato qui dentro?»

      «Sì» disse il piantatore.

      «Da chi lo avete saputo voi?»

      «Dal governatore e dal padre superiore del monastero».

      «Sapete molte cose voi, don Raffaele. È stata una vera fortuna l’avervi incontrato quella sera del combattimento dei galli».

      «O una disgrazia?»

      «Per voi forse, non certo per noi» disse Carmaux ridendo. «Orsù scendiamo».

      Una scaletta di pietra a chiocciola conduceva nei sotterranei del monastero. Carmaux snudò la spada, accese anche la torcia dell’amburghese, poi scese coraggiosamente, badando dove metteva il piede.

      Don Raffaele lo seguiva brontolando; Wan Stiller veniva per ultimo col moschetto armato.

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