Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. Emilio Salgari

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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero - Emilio Salgari

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si vedevano dei feretri di pietra con degli stemmi e delle iscrizioni.

      «Sono i sepolcri del monastero?» chiese Carmaux, facendo una smorfia.

      «Sì» rispose don Raffaele.

      «Il luogo è veramente poco allegro. Dove andiamo ora?»

      «Entrate in quella galleria; conduce, ne sono certo, al rifugio del capitano Valera».

      «Sarà solo colla figlia del Corsaro Nero?»

      «Io non posso saperlo, ve lo dissi già».

      «Andiamo, compare» disse Carmaux, volgendosi verso l’amburghese. «Non voglio che quest’uomo creda che noi abbiamo paura».

      Alzò la torcia per meglio vedere dove metteva i piedi e s’inoltrò risolutamente nel corridoio, tenendo la punta della spada diritta innanzi a sé. Anche in quel corridoio si vedevano numerose tombe e anche dei monumenti, rappresentanti per lo più dei cavalieri spagnoli con corazze, spade ed elmetti.

      Dopo qualche minuto giunsero dinanzi ad un cancello di ferro semiarruginito, che non era chiuso.

      Al di là si vedeva una seconda cripta e all’estremità, Carmaux e Wan Stiller scorsero, con viva gioia, una sottile striscia di luce che si proiettava dall’umido e nero pavimento del sotterraneo.

      «Ci siamo» mormorò Carmaux, spegnendo rapidamente le due torce.

      «Ho mantenuta la mia promessa?» chiese don Raffaele.

      «Da gentiluomo» rispose Carmaux. «È ben là che noi troveremo la figlia del Corsaro Nero?»

      «Ne son certo».

      «Le hanno scelta una ben brutta prigione».

      «Bisognava sottrarla alle vostre ricerche».

      «Compare Wan Stiller, preparati a battagliare» disse Carmaux. «Il capitano non si arrenderà senza lotta».

      «Di questo non ne dubito» disse don Raffaele. «È un valoroso».

      S’avvicinarono cautamente a quella striscia di luce e s’accorsero che sfuggiva al disotto di una porta.

      Carmaux accostò un occhio alla toppa che era abbastanza larga e guardò attentamente, rattenendo il respiro.

      Al di là, vi era una stanza piuttosto vasta, colle pareti coperte da tavoloni di legno e arredata semplicemente, non essendovi che alcuni scaffali e delle vecchie poltrone a bracciuoli in pelle di Cordova. Due uomini stavano seduti dinanzi ad una tavola che si trovava nel mezzo e parevano intenti a finire una partita agli scacchi.

      Uno aveva l’aspetto d’un gentiluomo e indossava anche l’elegante costume dei ricchi spagnoli, l’altro sembrava un soldato, avendo indosso la corazza ed in testa un mezzo elmetto d’acciaio con una piuma.

      «Non sono che due» disse Carmaux sottovoce, volgendosi verso l’amburghese.

      «È aperta la porta?»

      «Mi sembra».

      «Spingi ed entriamo. E le torce?»

      «La stanza è illuminata e non ne avremo bisogno».

      «Avanti dunque».

      Carmaux spinse violentemente la porta, che non doveva essere stata assicurata internamente e s’inoltrò colla spada in pugno, dicendo con voce un po’ ironica: «Buona sera, signori!…»

      Capitolo ottavo. Un duello terribile

      I due giuocatori, vedendo entrare quei tre personaggi, di cui due armati di spada e d’archibugio, balzarono rapidamente in piedi, allontanando le sedie.

      Colui che pareva un gentiluomo, era di statura piuttosto alta, magro come un biscaglino, colle gambe e le braccia estremamente lunghe e poteva avere una quarantina d’anni.

      Il suo volto, dai lineamenti duri, angolosi, con due occhi grigi dal lampo vivido, non era affatto piacevole.

      L’altro, che doveva essere un soldato, era invece piuttosto tozzo, basso di statura ed abbronzato come un indiano o per lo meno come un meticcio.

      Aveva gli occhi nerissimi invece ed i lineamenti assai meno duri del compagno, quantunque avesse nell’insieme qualche cosa che ricordava il muso astuto e feroce del coguaro.

      «Chi è di voi che si chiama il capitano Valera?» chiese Carmaux sempre ironico, scoprendosi con finta cortesia il capo.

      «Sono io» rispose l’uomo magro squadrandolo dal capo alle piante. «E voi chi siete?»

      «Vi preme saperlo?»

      «Certo, prima di cacciarvi di qui a calci».

      «Ah!… È una cosa un po’ difficile, mio signore» disse il filibustiere ridendo. «Ho dunque l’onore di dirvi che noi siamo due corsari agli ordini del capitano Morgan».

      Una bestemmia era sfuggita dalle labbra dello spagnolo.

      «Chi vi ha guidati qui?»

      Carmaux aveva gettato un rapido sguardo verso la porta e non vide che l’amburghese. Il prudente don Raffaele non aveva osato comparire dinanzi al capitano, che probabilmente lo conosceva.

      «Siamo venuti di nostra iniziativa» disse, ritenendo inutile compromettere il piantatore.

      «E che cosa volete?»

      «Null’altro che la restituzione della signora di Ventimiglia, che il conte di Medina vi ha affidata».

      «Chi ve lo disse?» gridò il capitano, sfoderando rapidamente la spada.

      «Adagio colle armi» disse Carmaux, facendo due passi innanzi, mentre l’amburghese alzava l’archibugio.

      «Ci minacciate?»

      «Siamo gente di guerra, mio caro signore. Basta! Abbiamo chiacchierato abbastanza e non abbiamo tempo da perdere. Consegnateci la figlia del Corsaro Nero».

      «Alcazar, a me!» urlò il capitano. «Cacciamo questi gaglioffi».

      Il soldato era già balzato innanzi snudando la spada, e con un urto improvviso aveva rovesciata la tavola, gettando a terra il candeliere.

      Wan Stiller aveva fatto fuoco sul capitano, ma in causa dell’improvvisa oscurità aveva mancato il colpo.

      «Mano alla spada, compare!» urlò Carmaux. «Ci piombano addosso.

      «Don Raffaele, accendete una torcia!»

      Nessuno rispose.

      «Tuoni d’Amburgo!» gridò Wan Stiller, indietreggiando verso la porta, e menando colpi all’impazzata per impedire ai due spagnoli di accostarsi. «Il piantatore è scappato come una lepre!…»

      «Tieni testa tu per qualche minuto?»

      «Sì, compare».

      Carmaux, indietreggiando, aveva ritrovata la porta. Avendo lasciate le due torce nel corridoio, appoggiate alla

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