Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. Emilio Salgari

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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero - Emilio Salgari

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del pennone inferiore quasi a fior d’acqua, scivolava senza far rumore sulle tranquille acque dell’ampia laguna, lasciandosi a poppa una striscia di spuma fosforescente.

      I due filibustieri tacevano, però si grattavano di quando in quando con furore.

      Erano le zanzare, le jejeus e le zancudos tempraneros, che di tratto in tratto calavano in nuvole fitte sulla scialuppa, punzecchiando ferocemente e dolorosamente i due avventurieri.

      Esse sono un vero flagello per quelle regioni e non lasciano tregua. In certe ore del giorno volteggiano le prime; di notte sono le seconde che si mettono in campagna e che montano la guardia, come dicono gl’indiani caraibi.

      E come sono dolorose le loro punture! Tanto che i poveri indiani, che non sono vestiti, preferiscono affrontare un feroce giaguaro, piuttosto che imbattersi in una nuvola di zancudos.

      Fortunatamente l’alba non era lontana. Le stelle cominciavano a scolorirsi e verso oriente una pallida striscia bianca con delicate sfumature rosa, cominciava a delinearsi al di sopra dei cupi ed immensi boschi della costa d’Altagracia e di La Rita.

      Tablazo, una delle due isole che chiudono o meglio riparano la laguna dalle ondate del golfo, si disegnava già colle sue belle e ricche piantagioni di cacao e di canne da zucchero e coi suoi pittoreschi villaggi, fondati sui bassifondi e abitati dagl’indiani.

      Quei villaggi, che allora s’incontravano dappertutto lungo le coste del golfo e della laguna di Maracaybo e che oggi sono piuttosto rari, davano un aspetto oltremodo grazioso a quella regione chiamata dai primi scopritori spagnoli Venezuela, ossia piccola Venezia.

      Ogni villaggio era formato da una sola abitazione, lunga parecchie centinaia di metri, capace però di contenere qualche centinaio di famiglie o anche più.

      Quelle lunghe case, situate a tre o quattrocento passi dalla riva e talvolta anche più lontano, viste in lontananza sembravano case galleggianti, invece erano costruite su solide palafitte, formate da pali di gajac tanto robusti da sfidare la scure e anche la sega e che rimanendo immersi si diceva acquistassero la durezza del ferro.

      Sopra i pali quegli abili costruttori avevano formato un’immensa piattaforma di legno leggiero, di bombax ceiba o di cedro nero, poi con bambù intrecciati innalzavano le abitazioni, coprendole con foglie di cenea o di vihai che sostituivano abbastanza bene le tegole o le ardesie.

      Non esistevano pareti, regnando tutto l’anno un calore intenso, quindi i naviganti potevano vedere, senza fatica, ciò che accadeva in quelle strane abitazioni, senza prendersi l’incomodo di entrarvi.

      La laguna cominciava a popolarsi.

      Dei canotti scavati nel tronco d’un cedro odoroso, montati da indiani quasi interamente nudi, scivolavano rapidamente sulle acque, lasciandosi dietro delle lunghe file di grosse zucche che le piccole ondate presto disperdevano; al largo alcune piccole caravelle veleggiavano lentamente, aspettando l’alta marea per approdare nei minuscoli porti dell’isoletta.

      «Sotto o sopravvento?» chiese l’amburghese.

      «Stringi sempre la costa» rispose Carmaux. «Passeremo fra Zapara e la costa».

      Capitolo terzo. La flotta dei filibustieri

      Alle otto del mattino, la scialuppa superava di volata lo stretto formato dalla punta orientale dell’isola di Zapara e la costa di Capatarida, entrando nel golfo di Maracaybo.

      Quantunque i due filibustieri avessero incontrate due grosse caravelle da guerra ed anche un galeone, nessuno li aveva disturbati, né avevano chiesto loro chi erano e dove si recavano.

      Le reti che tenevano lungo i bordi, dovevano aver fatto supporre agli spagnoli che fossero dei tranquilli pescatori e perciò nessuno si era preso la briga di fermarli.

      Appena giunti fuori dallo stretto, Carmaux e Wan Stiller misero la prora verso l’est, tenendosi un po’ lontani dalla costa, essendo quella cosparsa di bassifondi, dai quali sorgevano ancora in buon numero dei villaggi di caraibi.

      Anche in quel luogo si vedevano galleggiare moltissime grosse zucche, fra le quali nuotavano e giuocherellavano un bel numero di anitre e di gallinelle acquatiche, senza manifestare alcuna paura per quei galleggianti.

      «Dimmi un po’, Carmaux» disse Wan Stiller. «Servono a nutrire i pesci tutte quelle zucche? Ne sai qualche cosa tu?»

      «No, servono a prendere gli uccelli acquatici, mio caro amburghese».

      «Scherzi?»

      «Parlo da senno. Come tu sai tutti gli uccelli marini sono assai diffidenti e non si lasciano quasi mai accostare dalle scialuppe. I caraibi gettano dunque un gran numero di zucche che sono legate le une alle altre, con liane lunghissime, per abituare i volatili alla loro presenza. Quando credono giunto il buon momento, degli abili nuotatori si gettano in acqua, colla testa cacciata entro una zucca nella quale prima praticano alcune aperture per poter vedere liberamente».

      «Comprendo» disse Wan Stiller, ridendo. «Protetti dalla zucca s’avvicinano ai volatili e li tirano sott’acqua».

      «Precisamente» rispose Carmaux, «e ti posso dire anche che fanno delle caccie abbondanti e che non tornano mai ai loro villaggi senza portare, appesi alla cintura, otto o dieci volatili. Quando poi…»

      Uno sternuto sonoro gl’interruppe la frase. Don Raffaele aveva aperti gli occhi, e faceva sforzi disperati per alzarsi e per rompere i legami che gli imprigionavano le mani ed i piedi.

      «Buon giorno, señor» disse Carmaux. «Pare che fosse veramente di prima qualità, quell’Alicante».

      Il disgraziato piantatore lo guardò con due occhi strambuzzati, poi digrignando i denti, disse con voce rauca:

      «Siete due malandrini».

      «Malandrini! Oibò! V’ingannate, señor» rispose Carmaux. «Siamo più galantuomini di quello che credete e potrete persuadervene frugando le vostre tasche, appena vi avremo sciolte le mani.

      «Che cosa volete dunque da me? Perché m’avete rapito? Suppongo che non mi ripeterete la storiella del signor presidente dell’Udienza reale di Panama».

      «Veramente quel signore non c’entra più» disse Carmaux. «Vi condurremo però dinanzi ad una persona che è non meno potente e che del pari non scherza».

      «Chi è costui?»

      «Un altissimo personaggio, che pare s’interessi assai della sorte della figlia del Corsaro Nero e che farà di tutto per salvarla».

      «Toglierla al governatore!… Eh, via, quell’uomo non se la lascerà sfuggire».

      «La vedremo, quando i cannoni smantelleranno le fortezze di Maracaybo» rispose Carmaux. «Venti anni or sono quegli stessi pezzi hanno spazzato via la guarnigione».

      Don Raffaele era diventato spaventosamente pallido.

      «Sareste dei filibustieri, voi?» chiese con voce strozzata.

      «Per servirvi, señor».

      «Misericordia!… Sono un uomo morto!…»

      «Non mi sembra, almeno per ora» disse Carmaux, ironicamente.

      «Chi è il vostro capo?»

      «Morgan».

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