La caduta di un impero. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу La caduta di un impero - Emilio Salgari страница 3
«Speriamo che i congiurati non siano tanti, quantunque io abbia la massima fiducia sui miei valorosi rajaputi». «E che cosa facciamo, Yanez, quassù? Non siamo dei marabù».
«Aspettavo la risposta dei congiurati, mio caro Tremal-Naik» rispose il maharajah.
«Te la daranno quando noi avremo rovesciate le porte di bronzo» rispose il famoso cacciatore. «E noi le getteremo giù. Prova però prima a fare fuoco anche tu». «Per decapitare qualche statua?» «Nessuno di noi piangerà, te lo assicuro». «Proviamo» disse Tremal-Naik. «Non sono le munizioni che ci mancano».
Come Yanez, era armato d’una grossa carabina, la cui canna era di purissimo acciaio, di quell’acciaio che viene dal Borneo, dove si trova allo stato naturale. Allungò l’arma, tenendo la testa ben indietro per paura di prendersi qualche freccia avvelenata nella gola, e fece fuoco. Fu un secondo colpo di cannone che si ripercosse lungamente dentro le immense gallerie del tempio, ma anche questa volta nessuno si fece vivo.
«Corpo di Giove!…» esclamò Yanez, il quale incominciava a perdere la sua flemma ordinaria. «Quei birbanti devono essere scappati tutti».
«Io credo invece che fingano di non trovarsi raccolti lì dentro» disse Tremal-Naik.
«Ed allora chiamiamo a raccolta i nostri venti elefanti e facciamo rovesciare da loro la gran porta di bronzo. Non resisterà a lungo all’urto di quelle poderose masse».
Ricaricarono le loro carabine, poi a due, a tre, tenendo sempre bene gli occhi addosso ai due prigionieri, si lasciarono scivolare fino a terra. Gli elefanti erano stati fermati un migliaio di metri dal tempio, non credendo Yanez di averne bisogno, quindi il drappello doveva riattraversare un lembo della foltissima foresta.
A cinquecento passi però dovevano trovarsi i rajaputi, quindi non vi era alcun pericolo da correre.
Lo stupore di Yanez e dei suoi compagni non ebbe più limiti, quando percorsa una distanza quasi doppia, non scorsero un solo guerriero indù.
«Come va questa faccenda?» si chiese il portoghese, tormentando il grilletto della carabina. «Io non posso ammettere che abbiano avuto paura e che siano scappati».
«Eppure non vi sono più» disse Tremal-Naik, con voce angosciata. «Che qui, quasi sotto ai nostri occhi, sia stato commesso qualche nuovo tradimento da parte dei congiurati?» Yanez lo guardò con ispavento. «Che cosa vorresti dire tu?»
«Che anche i nostri creduti fedeli rajaputi sono stati corrotti e condotti chissà dove a rinforzare le schiere di Sindhia». «Ma se siamo stati assenti appena un’ora!…» «In un’ora certe volte si fanno delle cose straordinarie». «Che abbiano portati via anche i nostri elefanti?» «È questo ora che pavento» disse Tremal-Naik.
«Non mancherebbe altro!… Là, là, non perdiamo il nostro sangue freddo, e prepariamoci a rispondere se si tenta di attaccarci. La foresta è fitta d’altronde, e non si presta troppo per un grosso attacco. Mettiamoci su due file, coi prigionieri in mezzo, ed andiamo a vedere che cos’ha saputo fare quel cane di Sindhia. Altro che pazzo!… È un gran furbo che vale quanto noi, ora me ne accorgo! Orsù, avanti».
Ripresero la marcia tenendosi in mezzo ai cespugli più folti, e dovettero purtroppo convincersi che i rajaputi si erano allontanati.
«Ecco qui le loro tracce» disse Tremal-Naik, arrestando il drappello. «Qui quattro dei nostri sono passati e non da molto tempo». «Quattro» disse Yanez. «E tutti gli altri? Erano duecento». «Il loro comandante ti aveva mai dato alcun motivo per diffidare di lui?» «Mai, Tremal-Naik».
«Allora non capisco più nulla. Uccisi non sono stati, perché avremmo trovato almeno qualche cadavere, e poi non abbiamo udito nessun sparo. Come siamo stati giuocati, mio caro Yanez. Non mi aspettavo un simile colpo».
«È la corona della rhani che comincia a sgretolarsi» rispose il portoghese, sospirando. «Bah, non creda Sindhia d’aver vinta così presto la partita. Se non possiamo contare più sulla fedeltà dei rajaputi, faremo accorrere i montanari di Sadhja, e quelli non ci tradiranno perché odiano troppo Sindhia». «E poi giungeranno i nostri dalla Malesia». «Purché facciano presto!…»
Si erano nuovamente fermati per osservare le tracce lasciate dai fuggiaschi e per trovare un nuovo passaggio. Erano tutti inquieti, nervosi, temendo di subire, da un momento all’altro, qualche scarica di fucili.
Trovato uno stretto sentiero, aperto probabilmente dai nilgò, vi si cacciarono dentro camminando curvi curvi, e cercando di non far rumore. Di quando in quando si arrestavano per ascoltare, ma non udivano né voci d’uomini, né barriti d’elefanti.
Solamente delle scimmie ungko gridavano a squarciagola sulla cima delle più alte piante, divertendosi a spiccare dei salti immensi, superiori perfino ai dieci metri.
Il drappello, tenendosi sempre nascosto, percorse altri tre o quattrocento passi e sbucò finalmente in una piccola radura. Era là che si erano fermati gli elefanti.
«Spariti!…» aveva gridato Yanez, facendo un gesto di disperazione. «Ah!… I traditori!… Nemmeno sui cornac potevo contare».
«V’ingannate, maharajah» disse un uomo sorgendo bruscamente fra un gruppo di bassi cespugli. «Io sono il cornac di Sahur, e come vedete vi sono rimasto fedele».
Tutti si erano precipitati incontro al conduttore, il quale pareva in preda ad una viva agitazione. «Dov’è Sahur?» gli chiese Yanez. «Ve l’hanno portato via anche quello». «Ma chi?… Chi?…» «I rajaputi». «Possibile?»
«Sì, mio signore. Tutti quegli uomini dovevano essere stati già arruolati dall’ex rajah ancora prima che lasciassero la vostra capitale».
«E la mia polizia non si è accorta di nulla!… Ah!… Canaglie!… Siamo in mezzo ad un vero esercito di traditori».
«Narra che cos’è accaduto» disse Tremal-Naik rivolgendosi al cornac, il quale non si era ancora rimesso dalla sua grande agitazione.
«Eravate partiti da forse venti minuti quando abbiamo veduto i rajaputi giungere di gran corsa, seguiti da un elefante nella cui cassa si trovava un fakiro, se non m’inganno. Intimarono a noi di arrenderci, dicendoci che ormai era il rajah Sindhia che regnava sull’Assam e non più il maharajah né la rhani. Ho Ho avuto appena il tempo, approfittando della confusione, di gettarmi in mezzo ai cespugli abbandonando al suo destino il mio elefante che ormai non potevo difendere. Io ho veduto il fakiro consegnare ai traditori molti sacchetti pieni certamente d’oro, poi tutta la banda si allontanò montando i vostri elefanti».
«Si sono diretti verso la capitale, i rajaputi?» chiese Yanez, con estrema ansietà. «No, mio signore, si sono internati nel bosco dirigendosi verso il sud». «Sei ben sicuro che siano partiti tutti?»
«Non ne deve essere rimasto uno solo qui. Erano tutti sulle haudah degli elefanti». «Chi li guidava?» «Il fakiro». «E Sahur ti ha abbandonato?»
«Io spero, mio signore, di riaverlo ben presto» rispose il cornac. «Appena udrà il mio fischio accorrerà a gran galoppo e mi raccoglierà. Non aspetto altro che i rajaputi facciano una fermata».
«Ma rimarrai troppo indietro» disse Tremal-Naik. «Dovresti essere già partito».
«Corro come un cavallo, e poi la boscaglia è folta e gli elefanti non potranno avanzare che al passo. Avrei già lasciato questo posto ma mi premeva avvertirvi di quello che era succeduto durante