La caduta di un impero. Emilio Salgari

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La caduta di un impero - Emilio Salgari

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fatta. Noi ti aspettiamo dinanzi alla pagoda».

      «Vedrete, mio signore, che il mio elefante al mio primo richiamo scapperà e verrà a me».

      Yanez gli fece dare un paio di pistole, non avendo egli altre armi che l’arpione del mestiere, poi gli fece cenno di partire. Il cornac parve che si orientasse rapidamente, poi si allontanò a corsa sfrenata. Non aveva detto una vanteria affermando di correre come un cavallo.

      Yanez e Tremal-Naik erano rimasti silenziosi, guardandosi l’un l’altro, mentre gli sikkari, dopo aver legato le braccia ai due prigionieri, eseguivano una rapida battuta per accertarsi se tutti i rajaputi si erano veramente allontanati.

      «Ci capisci tu qualche cosa?» disse finalmente il portoghese, tergendosi il copioso sudore che gli bagnava la fronte. «Ho capito che ci hanno portati via duecento uomini» rispose Tremal-Naik.

      «Corpo di Giove!… Lo so anch’io, ma io vorrei ora sapere perché quei traditori non si sono slanciati su di noi per farci prigionieri e consegnarci al rajah».

      «Non l’avranno osato. Tu sei ancora il maharajah dell’Assam, mentre il pazzo ora rinsavito non è ancora nulla. Potrà forse un giorno riconquistare la corona che tu gli hai tolta, ma finora non è che uno spodestato».

      «Che abbiano avuto paura di noi? Duecento contro otto, poiché i due prigionieri non ci avrebbero certamente aiutati».

      «In fondo i rajaputi sono cavallereschi, tu già lo sai. Avranno accettato di arruolarsi e avranno invece rifiutato di spingere il tradimento fino ad impadronirsi delle nostre persone».

      «Di ciò non serberò loro nessuna riconoscenza» disse Yanez, che appariva furioso. «Io non mi aspettavo un colpo così grosso. Mi hanno dato una coltellata in mezzo al cuore privandomi dei miei venti elefanti per venderli a Sindhia. Ladri!… Ladri!…»

      «Càlmati, amico, la partita fra te ed il rajah non è, si può dire, ancora impegnata, ed i montanari di Sadhja non mancano di buoni elefanti e bene montati».

      «Ed armati anche di spingarde» disse Yanez. «Appena torneremo nella capitale manderemo subito dei messi al vecchio Khampur». «Se ci torneremo» disse Tremal-Naik. «Ne dubiteresti tu?»

      «Io penso che quello che non hanno osato tentare i rajaputi per un certo riguardo verso le nostre persone, lo potranno fare i paria nascosti nella pagoda. Non dimentichiamo quelle canaglie le quali possono trovarsi in buon numero e fors’anche ben armati».

      «Per Giove!…» esclamò Yanez, facendo un soprassalto. «Non mi ricordavo più di loro. Non ci mancherebbe ora che dovessimo subire un assalto da parte di quei congiurati. E non siamo che in otto, valorosi finché si vuole, ma sempre otto, con due seccature da guardare. Non ci fossero almeno questi prigionieri». «Lasciamoli andare».

      «Mai più, mio caro Tremal-Naik. Il vecchio e anche il giovane sono persone troppo preziose».

      In quel momento i sei sikkari tornarono dalla loro breve e rapidissima escursione, camminando in gruppo serrato, senza produrre il menomo rumore. Abituati a sorprendere i grossi animali delle foreste e delle jungle, avevano il passo così leggero da non poterli udire passare a pochi metri di distanza. «E dunque?» interrogò ansiosamente Yanez.

      «Sono fuggiti tutti, Altezza» rispose il capo dei cacciatori. «In queste foreste non vi è più un rajaputo». «Avete udito barrire i nostri elefanti?» «Sì, ma a grande distanza».

      «Molte miglia?» chiese Tremal-Naik, il quale in quel momento pensava al cornac di Sahur.

      «Oh, no, a ben poche. Quelle grosse bestie non possono procedere al galoppo fra tutti questi vegetali».

      Yanez guardò in viso i suoi fedeli cacciatori, i soli forse veramente fedeli, e chiese loro: «Avreste paura a ricondurci alla pagoda?»

      «Siamo sempre a disposizione del maharajah e del sahib suo amico» rispose il capo degli sikkari. «Noi non abbiamo paura né delle tigri, né dei rajaputi, né dei paria. Sappiamo già che il nostro destino è di morire entro qualche selva, dilaniati dalle belve feroci o strozzati dai thugs, e siamo sempre decisi a tutto. Che Vostra Altezza comandi». «Ritorniamo alla pagoda». «Vorreste entrare?»

      «Ora che non abbiamo più gli elefanti per rovesciare la porta di

      bronzo, ci sarà impossibile». «Potreste ingannarvi, Altezza». «Spiègati meglio».

      «Durante la nostra esplorazione abbiamo raccolto una scatola di latta che deve aver contenuto dei biscotti o qualche cosa di simile, e di latta assai spessa, ed abbiamo preparata una bomba». «Tu!…» esclamò Yanez un po’ sorpreso. «La polvere non ci mancava come non ci mancava qualche miccia». «Fa’ vedere».

      Un sikkaro si avanzò portando una scatola capace di contenere due chilogrammi di polvere e che era stata tutta bene stretta colle cinghie delle carabine.

      «Voi siete meravigliosi» disse il portoghese. «Se questa specie di bomba scoppierà, anche la porta, per quanto salda, crollerà. Toh!… Fra tante disgrazie abbiamo ancora un lampo di fortuna, è vero, Tremal-Naik?»

      «Comincio a crederlo anch’io» rispose il famoso «Cacciatore della Jungla Nera». «Non saranno già tutte cannonate che ci giungeranno in pieno petto. L’aver ritrovato il cornac di Sahur è già qualche cosa».

      «E sarà più di qualche cosa se lo vedremo giungere piantato fra gli orecchi del suo bestione».

      «Io non dubito che possa portarlo via ai rajaputi. Tu sai quanto sono affezionati gli elefanti ai loro conduttori».

      «Orsù» disse Yanez, dopo di aver ascoltato a lungo. «La foresta è silenziosa, quindi possiamo rifare il cammino percorso e tornare alla pagoda. Quella maledetta porta voglio vederla rovesciata per misurarmi coi paria di Sindhia. Almeno conoscerò la resistenza ed il coraggio dei miei futuri nemici». «E se quelle canaglie fossero uscite e ci avessero preparato un agguato?»

      «No, sahib», disse il capo degli sikkari, «nessuna imboscata. Io odo gli sciacalli urlare verso la pagoda, e ciò vuol dire che da quella parte non si trovano esseri umani, almeno per ora. Hanno troppa paura dei fucili e fuggono subito, appena vedono luccicare un’arma. Altezza, possiamo partire».

      I dieci uomini si incolonnarono, ascoltarono un’ultima volta, poi si ricacciarono nel sentiero aperto dai nilgò, procedendo colle carabine puntate. Yanez era sempre dinanzi, col capo degli sikkari.

      CAPITOLO SECONDO. LA CARICA DI SAHUR

      Quantunque sotto la boscaglia regnasse un’oscurità profondissima, il drappello batteva in ritirata con molta rapidità, ansioso di mettersi momentaneamente in salvo nella pagoda e di attendere là il cornac. Procuravano tutti però di non smuovere le piante, poiché temevano che si aggirassero in quei dintorni, se non i rajaputi, i congiurati i quali erano ben più da temersi.

      Non credevano affatto che i paria fossero fuggiti tutti, quantunque nessuno avesse potuto impedirglielo dopo quell’inaspettato tradimento, poiché potevano essere usciti per le altre porte, lasciando invece ermeticamente chiusa quella maggiore.

      Nessun rumore rompeva il silenzio della notte. Solamente in lontananza tre o quattro sciacalli, non avendo trovato probabilmente da cenare, sfogavano il loro malumore con delle urla che straziavano gli orecchi. Però gli sikkari, troppo pratici delle foreste, non si avanzavano che con molte precauzioni, potendo improvvisamente trovarsi dinanzi a qualche tigre affamata, ad uno di quei così detti mangiatori d’uomini, che non esitano

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