La caduta di un impero. Emilio Salgari

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La caduta di un impero - Emilio Salgari

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a Benares, città famosa per la grandiosità dei suoi templi» rispose il capo degli sikkari, mettendo piede a terra pel primo. «Hai anche tu una candela?» «Sì, sahib». «Accendila e andiamo a visitare queste porte».

      Stavano per strofinare gli zolfanelli, quando udirono echeggiare improvvisamente un suono non facile a definirsi.

      «Qui vi è qualcuno che ci spia» disse Tremal-Naik. «Che abbia aperta qualche porta?»

      «A me parve un colpo dato a qualche statua con un pezzo di ferro» rispose il capo degli sikkari, accendendo rapidamente la candela.

      Si guardarono intorno ma non videro altro che delle statue di dimensioni gigantesche che rappresentavano tutte le incarnazioni di Visnù.

      «Eppure noi abbiamo udito bene e non siamo sordi» disse Tremal-Naik, il quale aveva pure accesa la sua candela. «Qui ci doveva essere qualcuno poco fa. Dove si sarà cacciato?» «E sarà solo, sahib?» «Questo si saprà più tardi». «Speri, sahib, che i congiurati si mostrino?» «Verranno almeno a domandarci che cosa desideriamo». «E noi che cosa risponderemo?»

      «Intimeremo loro senz’altro la resa della pagoda, se non vorranno provare le nostre grosse carabine. Vedo aprirsi là in fondo dei vasti corridoi. Andiamo a visitarli». «Sii prudente, sahib».

      Attraversarono lentamente la gran pagoda, guardandosi intorno per evitare qualche brutta sorpresa, e giunsero dinanzi a una galleria la quale forse metteva agli alloggi dei sacerdoti.

      Stavano per salire la gradinata, quando udirono un leggero sibilo seguito subito da un colpo secco. Pareva che qualche freccia si fosse spezzata presso di loro.

      «Alto!…» aveva comandato prontamente Tremal-Naik. «Non amo provare il veleno dei bis cobra».

      «Hanno lanciata una freccia addosso a noi, e per un caso miracoloso siamo sfuggiti ad una morte orribile. Sahib, non andare più innanzi».

      «Veramente ci penso poco» rispose il famoso cacciatore. «Contro le armi da fuoco ci tengo e ci sto, ma i veleni non ho alcuna voglia di provarli così presto. Come mai questi paria si sono armati di cerbottane, armi non troppo usate qui? Eppure hanno, a quest’ora, le carabine dei rajaputi».

      Udendo in alto un altro sibilo che annunciava un secondo messaggero di morte, Tremal-Naik scese a precipizio i gradini, seguito dal capo degli sikkari, e andò a rifugiarsi dietro ad una statua che rappresentava una divinità indiana. Là giunto e assicuratosi di non aver nemici alle spalle, puntò la carabina verso la galleria, lasciando partire il colpo. Tosto grida altissime si alzarono, che però si spensero bruscamente.

      «Che abbia storpiato qualcuno di quei briganti?» si chiese Tremal-Naik. «La carabina era carica a mitraglia, e di quella grossa anche». In quel momento si udì Yanez domandare dall’alto del finestrone: «Hai sfondata una porta?» «No, amico». «Stando quassù pareva che fosse rovinato qualche cosa di grosso». «Non ho sparato che un colpo». «Ci sono?»

      «Sì, e devono essere anche in molti, e quello che è peggio, armati di cerbottane». «Hai trovata nessuna porta?»

      «No, Yanez. Non oso andare innanzi e fare conoscenza colle frecce tinte nella bava del bis cobra». «Ti credo e dovresti…» «Che cosa fare?…»

      La risposta fu soffocata da una scarica di carabine. Gli sikkari, ben nascosti dietro le trombe di pietra degli elefanti, avevano aperto il fuoco.

      «Altro che cercare le porte!…» esclamò Tremal-Naik, slanciandosi verso la corda. «Ci si assale da tutte le parti. In alto!… In alto, sikkaro!…»

      Il bravo cacciatore però non lo seguì subito. Avendo veduto delle ombre precipitarsi giù dalla scala della galleria, aveva fatto fuoco. Nuove e più acute urla si erano alzate, urla feroci, urla di guerra, di gente decisa a venire alle mani.

      Tremal-Naik era già sul davanzale del finestrone e ricaricava rapidamente la sua arma a fianco di Yanez.

      «Facciamo un doppio colpo o perderemo il capo degli sikkari» disse il portoghese. «Dove devo fare fuoco? Ti confesso che non vedo assolutamente nulla». «Spara in fondo alla pagoda». «Sei pronto?» «Sì, Yanez». «Se non si arresteranno faremo lavorare gli sikkari».

      Puntarono le carabine e fecero fuoco scatenando urla selvagge. I paria dovevano aver ricevuto un po’ di mitraglia, e forse si erano arrestati, non sapendo con quanti avversari avevano da fare.

      Il capo degli sikkari aveva subito approfittato di quella breve sosta, per mettersi anche lui al sicuro sul finestrone. «Non hai ricevuta nessuna freccia?» gli chiese Tremal-Naik.

      «No, sahib, però ne ho udite molte fischiarmi intorno. Guai se non avessi spenta subito la candela. Mi avrebbero imbottito di veleno».

      «Ed ora che cosa succederà?» chiese Tremal-Naik, guardando Yanez, il quale si era affrettato, dopo la comparsa del sikkaro, a ritirare la corda. «Noi volevamo sorprendere i congiurati e mi pare invece che i sorpresi siamo stati noi».

      «Chi poteva prevedere il tradimento dei rajaputi?» disse Yanez, con un sospiro. «Eppure in quelle truppe avevo fiducia. Duecento uomini passati al nemico in una sola notte!… Sono troppi per un principe che ne ha appena un migliaio ed anche disseminati nelle diverse città. Non credevo che quel Sindhia fosse così forte e così astuto». «C’è qualcuno che lo guida». «Il fakiro che ha pagato i miei guerrieri».

      «Sì, Yanez. Sindhia da solo non saprebbe far nulla. L’altra volta aveva un greco, ora ha un fakiro per condottiero delle sue forze». «Il greco era più pericoloso». «Noi non sappiamo ancora chi sia questo fakiro».

      «Io spero di poterlo, un giorno o l’altro, sorprendere ed attaccarlo alla bocca d’un cannone». «Ed intanto siamo assediati».

      «E veramente assediati, perché anche dinanzi a noi, nascosti nella boscaglia, vi sono altri uomini i quali ci impediranno di far ritorno alla capitale». «Che venga il cornac?»

      «Io lo spero. Se Sahur giunge, noi caricheremo al galoppo quelle canaglie e le metteremo in completa rotta». «E se al cornac fosse mancato il colpo?»

      Yanez si mise una mano in tasca, prese una sigaretta, l’accese, poi colla sua calma abituale disse:

      «Allora saremo noi che caricheremo a gran colpi di carabina. Oh!… Non sarà questa notte che io perderò il mio impero».

      «Queste Tigri di Mòmpracem, anche se di pelle bianca, sono sempre meravigliose» disse Tremal-Naik. «Non dubitano mai della vittoria finale».

      «Altezza» disse in quel momento il capo degli sikkari, il quale spiava dal davanzale del finestrone. «Noi abbiamo una specie di bomba. Se non possiamo più far saltare la grossa porta, lanciamola dentro la pagoda».

      «No, mio caro, la getteremo contro i paria che cercano d’impedirci la ritirata, e dall’alto dell’elefante. Di quelli che sono chiusi nel tempio non mi occupo, poiché sarà ben difficile che possano salire fino qui. Che cosa fanno?»

      «Non odo più nulla, come non vedo più nulla» rispose il cacciatore. «Pare che quei colpi di carabina li abbiano resi estremamente prudenti».

      «Giacché ci lasciano tranquilli, niente di meglio, se non ci preparano invece qualche sorpresa». «Dovrebbero incendiare la pagoda» disse Tremal-Naik, sorridendo. «Ah, furfante!… Vuoi insegnare loro per farci prendere subito».

      «Sono lontani e non ci possono udire, amico Yanez.

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