La caduta di un impero. Emilio Salgari

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La caduta di un impero - Emilio Salgari

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in questo disgraziato paese». «Che cosa pensi di fare, mio signore?» chiese Surama.

      «E me lo domandi? Se non avessimo un figlio lascerei andare anche la corona dell’Assam che mi ha dato più noie che soddisfazioni, e andrei a riposarmi a Mòmpracem, a fianco del mio fratello bruno, il terribile Sandokan. Ma vi è il piccino, e per Giove, farò il possibile per lasciargli l’impero che io e tu, Surama, abbiamo guadagnato col nostro valore. Bel mestiere fare il maharajah!… Siamo già ridotti a mangiare delle uova sode o crude per non prenderci delle coliche terribili a base di veleno di bis cobra. Che il diavolo si porti tutti i regni del mondo, Io ne ho abbastanza».

      «Mio signore», disse Surama, «vuoi che prima che scoppi la rivoluzione andiamo a Mòmpracem?»

      «Io!… Io fuggire dinanzi a Sindhia!…» gridò Yanez. «Ah, no!… Quel pazzo che ha riacquistata la ragione mercé le cure prestategli a Calcutta e pagate coi denari nostri, non metterà le sue mani sulla tua corona, mia piccola rhani. Sandokan l’hanno chiamato la Tigre della Malesia; laggiù chiamavano me la Tigre bianca. Siamo nel paese delle tigri, e per Giove, come abbiamo vinto Suyodhana, spero di vincere anche Sindhia».

      Vuotò il bicchiere di birra, poi scagliò il vetro contro la parete, mandandolo in dieci pezzi. «Lo spezzerò come ho fracassato questa tazza». Non era più l’uomo tranquillo.

      I suoi occhi avvampavano, i suoi lineamenti già sempre energici, erano diventati feroci, la sua barba abbondantemente brizzolata, era diventata irta.

      «Ah!… Vogliono la guerra!…» gridò, spezzando una seconda tazza. «L’avranno, e sarà terribile. Vieni, Surama, andiamo a riposarci. Per ora, credo, che nessun pericolo ci minacci».

      «Ed io vado verso le montagne» disse Tremal-Naik. «Sahur è sempre pronto a partire, avrà doppia razione, e andremo a trovare i forti montanari di Sadhja. Non perdiamo tempo, Yanez. Vedo il tradimento sorgere da tutte le parti». «Volevo aspettare qualche telegramma di Kammamuri».

      «Può ritardare assai. Lasciami andare. Tu sai che non conto mai sul sonno. Se mi coglierà, dormirò nell’haudah».

      «Vuoi prenderti il rajaputo gigantesco? È forse l’unico che ha dato delle prove di essere veramente affezionato. È un uomo che può uccidere solamente coi pugni».

      «Sì, me lo porto via» disse Tremal-Naik. «Mi servirà per mandarti mie notizie. Va’, Yanez, la notte è stata pessima per te ed anche per la tua piccola rhani. Chi veglia qui?»

      «Io, sahib», gridò il baniano «e non sarò solo perché è ancora vivo un molosso che ormai si è affezionato a me». «Non hai paura dei tradimenti tu?» Il vecchio cacciatore di topi mostrò la sua fascia piena di armi e disse:

      «Vengano a provarle i traditori: qui vi sono armi da fuoco ed armi bianche. Non sono più giovane, eppure io valgo ancora un mezzo maharatto».

      Dieci minuti dopo, Tremal-Naik rimontava su Sahur insieme al gigantesco rajaputo e partiva per la montagna.

      CAPITOLO TERZO. DUE FURFANTI

      Kammamuri e Tìmul, il giovane cercatore di piste, non avevano perduto il loro tempo.

      Dopo una corsa furiosa sul dorso del penultimo elefante rimasto a Yanez, erano giunti a Rampur, la stazione ferroviaria più prossima all’Assam, almeno in quell’epoca, poiché oggidì le linee si sono triplicate, ed i cui treni conducono direttamente a Calcutta passando attraverso selve immense infestate di tigri e di briganti indiani, non meno audaci di quelli americani, e sopra ponti giganteschi gettati sui grandi corsi d’acqua.

      La «Indian-Sud-Railway» ha organizzato un servizio veramente

      ammirabile. I suoi treni si compongono usualmente di pochi carrozzoni, assai vasti e molto comodi, forniti di comode panchette rialzate, e che per mezzo di cinghie, alla sera, si possono trasformare rapidamente in letti.

      Sui lati opposti degli scompartimenti si aprono due od anche tre gabinetti, per abbigliarsi e per altre cose ancora che richiedono i lunghi viaggi con fermate a lunghissime distanze e piuttosto rare.

      Le finestre sono difese da stuoie di vetiver, che vengono mantenute sempre umide da serbatoi speciali, sicché la temperatura è relativamente abbastanza fresca, anche perché i carrozzoni hanno un doppio tetto che mitiga assai il calore.

      Le insolazioni sono rarissime anche sulla lunghissima linea della «East- Indian-Railway», che va da Calcutta a Bombay.

      Ad ogni fermata un agente della Compagnia sale nei carrozzoni, prende il nome dei viaggiatori che desiderano pranzare nella stazione più prossima che è poi sempre lontanissima, telegrafa, ed il pranzo o la colazione sono sempre pronti, e non a prezzi elevati, poiché in India si vive a buon mercato.

      Kammamuri e Timul, congedatisi dal cornac che li aveva condotti fino alla stazione ferroviaria, in tempo per prendere il primo treno del mattino delle sette e quaranta, si accomodarono in uno scompartimento di prima classe, avvertendo subito l’agente che avrebbero pranzato a Bogra.

      (Trattasi evidentemente di Pursa).

      Si erano appena seduti ed avevano accese le sigarette, quasi certi di non essere disturbati, quando un momento prima che la campana annunciasse la partenza del treno, una porta si aprì e si avanzò un superbo bramino, vestito elegantemente in bianco, con una larga fascia azzurra stretta ai fianchi che sorreggeva due pistole dalla canna lunghissima e dal calcio intarsiato d’avorio e d’argento.

      Era un uomo di statura imponente, con una lunghissima barba nera, i lineamenti energici, gli occhi quasi fosforescenti, come quelli del paria. Lanciò uno sguardo piuttosto sdegnoso sui due viaggiatori, mise sulla reticella una piccola valigia di pelle gialla assai elegante, con borchie d’argento, poi si sedette tergendosi il sudore con un fazzoletto largo quasi quanto una vela, e che puzzava di muschio come se fosse stato estratto allora dal ventre d’un alligatore.

      «Si fuma qui!» disse, aggrottando la fronte. «Vedete bene che io sono qualche cosa più di voi». «Potreste ingannarvi, signore» rispose prontamente Kammamuri, un po’ seccato. «Chi siete voi dunque?» «Due principi assamesi». «E vi recate?» «A Calcutta». «A che cosa fare?»

      «Da sei mesi nell’Assam non piove e la carestia infuria. Andiamo a comperare grano pel nostro popolo».

      «Ah!… Si soffre la fame nell’Assam!…» disse il bramino. «Eppure si dice che abbia delle risaie immense». «Il raccolto è mancato quest’anno, sahib».

      «Già… Da quando Sindhia ha perduto la corona, tutte le cose vanno male lassù. Che cosa fa la rhani?» «Governa come meglio può». «Ed il maharajah bianco?» «Si diverte a sterminare le belve che infestano le nostre foreste». «Mi hanno già detto che è un famoso cacciatore». «Fulmina le tigri come se fossero semplici gazzelle» rispose Kammamuri. «Sarà amato dalla popolazione». «Più di Sindhia». Uno strano sorriso comparve sulle labbra del bramino.

      «Io però ho udito raccontare che alla rhani hanno avvelenati due o tre ministri». «Sì, un paio». «Allora ha qualche nemico». «Può darsi». «Che si sospetti di Sindhia?»

      «Non saprei dirvelo, però non si vive più tranquilli alla corte della rhani dopo che s’è sparsa la voce che l’ex rajah è fuggito da Calcutta dove si trovava in osservazione, avendo dato segni di follia furiosa».

      «Non lo sapevo» disse il bramino. «Sicché andate a Calcutta a fare dei grossi acquisti di granaglie?» «Sì, sahib». «Conoscete la città?» «Ci sono stato molte volte io». «Avete delle

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