La città del re lebbroso. Emilio Salgari

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La città del re lebbroso - Emilio Salgari

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invidiato.

      Lakon-tay si era creata una posizione altissima, esclusivamente col proprio valore.

      Di temperamento ardente e battagliero, era entrato giovanissimo nell’esercito, pensando che forse sarebbe stato quello l’unico mezzo per raggiungere una posizione elevata, giacché suo padre, un modesto costruttore di velieri, non gli aveva lasciato che una piccola fortuna.

      Il giovane, che aveva coraggio da vendere ai suoi compatrioti, i quali hanno invece la brutta fama di essere pusillanimi, si era fatto subito largo, distinguendosi in parecchi scontri, poiché il Siam era allora in guerra cogli stati vicini.

      A trent’anni, dopo aver respinto e battuto sanguinosamente i Peguani che erano tre volte superiori di numero, aveva già ricevuto dal re la prima scatola d’oro per conservare il betel, distintivo di nobiltà, giacché nel Siam la nobiltà non è ereditaria.

      A trentacinque, già generale, dopo aver battuto le truppe birmane che avevano già varcato le frontiere, minacciando d’invadere tutto il Siam, aveva ricevuto la seconda, più grande e più elegante, ed il cerchio d’oro con fiori cesellati da mettersi sul cappello, che gli conferiva il titolo di oya, ossia di grande personaggio.

      Cessate le guerre, il valoroso generale si era ritirato come privato cittadino nella sua natia Bangkok, per godersi finalmente un po’ di tranquillità e crearsi una famiglia prima di diventare troppo vecchio.

      Phra-Bard invece, che non aveva dimenticato i servigi resi alla patria dal prode generale, lo aveva poco dopo chiamato alla corte, creandolo ministro della sua casa prima, poi ministro della corte dei S’hen-mheng, la carica più alta e più invidiata da tutti i notabili Siamesi.

      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

      Lakon-tay, in preda a cupi pensieri, si allontanò dal palazzo reale camminando come un ebbro, cogli occhi socchiusi e la testa china sul petto, seguendo la riva del Menam, le cui acque riflettevano vagamente le ultime luci del crepuscolo.

      Bangkok è la Venezia dell’oriente e la principale città del Siam dopo la decadenza di Ajuthia, l’antica capitale dello stato, lasciata deperire per un capriccio inesplicabile dei monarchi Siamesi, i quali, al pari di quelli Birmani, amano sovente abbandonare le grandi città per dare splendore ad altre minori.

      Bangkok, quantunque salita agli onori di città da poco più di un secolo, ha oggi, compresi i sobborghi, quasi quaranta chilometri di sviluppo e un milione di abitanti e gode fama di essere opulenta se non inespugnabile, malgrado i suoi nomi fastosi.

      Ed infatti Krung-tlepha-mahasi-ayuthaja-mahadilok-rascathani, come la chiamano i Siamesi, che ci tengono ai nomi lunghissimi e che significa «la grande regal città degli angeli, la bella e la inespugnabile», non potrebbe resistere un’ora sola al fuoco d’una delle nostre moderne corazzate, quantunque, per renderla imprendibile, i Siamesi abbiano bagnato le fondamenta delle sue porte con sangue umano.

      Al pari di Venezia, la città sorge sopra alcune isolette fangose, divise in due gruppi da un braccio principale del Menam.

      La città che si estende sulla riva destra del fiume non è che una accozzaglia di casupole; quella che s’innalza sulla sinistra è veramente magnifica e cinta da mura merlate con torri e bastioni, e vi si agglomerano, non si sa come, non meno di seicentomila abitanti.

      È là che sorge il palazzo reale, dinanzi a cui tutti i passanti devono scoprirsi e chiudere l’ombrello, per non correre il pericolo di vedersi fatti bersaglio da durissime pallottole di terra, che gli arcieri di guardia scagliano con ammirabile maestria.

      Ed è pure là che s’innalzano la grandiosa piramide di phrachedi, che lancia la sua cima a oltre cento metri, edificio ammirabile per linee architettoniche e sotto la cui mole si crede siano sepolte le reliquie preziose di Sommona Kodom; i templi grandiosi dei talapoini, dai tetti a tre piani, coperti di lamine d’oro che brillano ai raggi del sole; la pagoda di vatbaromanivat colle sue magnifiche porte d’ebano ad intarsi di madreperla scolpite e lavorate con un’arte che non ha l’eguale, colle sue colonne e coi suoi tetti coperti di dorature che sono costate somme favolose; ed è là finalmente che si ammira la pagoda di vat-scetuphon che racchiude una colossale statua di Budda, ossia di Sommona Kodom, tutta coperta d’oro e d’un valore inestimabile.

      Lakon-tay, sempre assorto nei suoi pensieri, continuava a seguire la riva del fiume, insensibile alla pittoresca grandiosità di quel superbo corso d’acqua, che vince tutti gli altri in bellezza.

      Migliaia e migliaia di case galleggianti già illuminate, ormeggiate alla riva da grosse gomene di canna d’India e tenute a galla da enormi fasci di bambù legati a cento a cento, ondulavano graziosamente, scricchiolando, mentre nell’interno si udivano chiacchierii di donna, risate di fanciulli e voci di uomini.

      Ondate di fumo sfuggivano dai camini e fuochi multicolori brillavano sulle zattere e dentro le case, mentre la fresca brezza notturna che veniva dal mare portava fino alla riva i mille strani odori delle cucine Siamesi.

      Lakon-tay seguì il fiume, finché ebbe oltrepassato tutta la città galleggiante, urtando di frequente qualche passante; e scese verso i quartieri bassi, camminando sempre come un sonnambulo, finché giunse in un luogo deserto, dove si vedevano scintillare nelle tenebre dei fuochi giganteschi che ardevano fra una pagoda ed un tumulo gigantesco, una vera montagna di mattoni di forme strane, come se ne ritrovano sovente disegnate sulle lacche giapponesi, e che rappresentano il Fusi-yama, la montagna di fuoco.

      Degli uomini seminudi, armati di lunghe picche, s’aggiravano silenziosamente intorno a quei fuochi, ora apparendo alla vivida luce della fiamma ed ora scomparendo fra le ondate di fumo denso, mentre dall’alto calavano pesantemente stormi di grossi avvoltoi neri, che gracchiavano sinistramente.

      Quel luogo era la necropoli di Bangkok; la pagoda era quella di vat-saket; l’enorme ammasso di mattoni la Phuk-kao-thong, ossia la montagna d’oro, e quegli uomini bruciavano i cadaveri delle persone morte nella giornata.

      Lakon-tay si fermò, quasi sorpreso di trovarsi in quel luogo funebre, e guardò con stupore quelle fiamme che facevano crepitare le carni dei cadaveri, spinti dai crematori sui tizzoni ardenti.

      Una voce lo trasse da quella contemplazione.

      «Padrone, che cosa fai qui?»

      Era Feng, il quale da lontano lo aveva seguito, spaventato dall’aspetto tetro del generale.

      Lakon-tay si voltò senza rispondere.

      «Che cosa vieni a fare qui, padrone?» chiese nuovamente il giovane. «Non è qui la tua casa.»

      «Non lo so,» rispose Lakon-tay. «Camminavo senza vedere né sapere dove andassi, e mi sono trovato fra questi morti.

      Triste presagio. Quegli avvoltoi scarneranno ben presto anche il mio cadavere, giacché io non sono uomo da sopravvivere alla disgrazia che mi ha colpito. La mia morte calmerà la collera del re e salverà dalla schiavitù mia figlia.»

      «Scaccia questi funebri pensieri, mio padrone,» disse Feng, che aveva le lacrime agli occhi. «Forse la tua innocenza verrà un giorno riconosciuta e potrai tornare ministro. Pensa quale dolore proverebbe la dolce Len-Pra, se tu morissi.»

      «Mia figlia ha nelle vene sangue di guerrieri, perché anche sua madre era figlia d’un prode condottiero, e saprà rassegnarsi alla sua sventura.

      No, Lakon-tay non sopravviverà alla sua disgrazia. Che cosa diverrei io domani accusato di aver fatto morire i protettori del regno,

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