La città del re lebbroso. Emilio Salgari

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La città del re lebbroso - Emilio Salgari

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che hai salvato il regno dalle invasioni dei Cambogiani e dei Birmani e che hai domato i miei compatrioti? O mio signore!»

      «È passato troppo tempo da allora,» rispose Lakon-tay con voce cupa.

      «Vieni a casa tua, padrone: Len-Pra, non vedendoti, sarà inquieta.»

      Lakon-tay soffocò un gemito e si lasciò condurre da Feng, senza più opporre resistenza.

      Risalirono silenziosamente la riva del fiume, ritornando nei quartieri più centrali, costituiti non più da capanne, bensì da phe elegantissime, quelle graziose palazzine che si specchiano nelle limpide acque del Menam, e che, quantunque esteriormente non offrano nulla di interessante, poco hanno da invidiare ai tanto decantati bungalow di Calcutta.

      Sono piccoli lavori d’architettura puramente siamese, colle travature graziosamente scolpite, con porte doppie e persiane variopinte che durante il giorno si tengono alzate, onde si possa vedere l’altare di Sommona Kodom; e sono circondate da una larga e comoda veranda dalla ringhiera elegantissima, piena di poltrone di bambù e di vasi contenenti arbusti tagliati in forma d’animali più o meno fantastici.

      Ad un tratto, Feng si arrestò dinanzi a una phe di dimensioni più vaste delle altre, situata proprio sulla riva del fiume, coi muri di legno scolpito, abbelliti da strati di lacca, una vasta veranda che correva in giro, e un giardinetto chiuso da una elegante cancellata di legno dipinto in rosso.

      «Ci siamo, padrone,» disse dolcemente a Lakon-tay.

      Il generale, che pareva si fosse allora risvegliato da un triste sogno, alzò gli occhi verso la veranda che la luna, allora sorta, illuminava, facendo scintillare dei grandi vasi di porcellana dorati e niellati, entro cui crescevano delle peonie di Cina e delle camelie.

      «Ah!»mormorò. «E Len-Pra?»

      «Ti aspetterà nella sala da pranzo.»

      Con una mossa lenta, quasi automatica, Lakon-tay aperse la porta d’ebano incrostata di madreperla e salì lentamente alcuni gradini, poi percorse un corridoio ed entrò in una stanza a pianterreno, illuminata da una grande lampada dorata, con un globo sottilissimo di porcellana azzurra, che proiettava sulle pareti, tappezzate di seta di Cina dello stesso colore, e sul lucidissimo pavimento di legno di tek, una luce scialba e dolce come quella dell’astro notturno.

      Vi erano pochi mobili, tutti di fattura squisita. Una tavola d’ebano già apparecchiata, con tondi e vassoi d’argento cesellato, delle sedie di bambù dalla spalliera assai inclinata e d’una leggerezza straordinaria, delle mensole sostenenti vasi della Cina e del Giappone, pieni di peonie color fuoco, dei tavolini laccati ed incrostati di madreperla, coperti di ninnoli, di vasetti, di bottigliette contenenti forse dei profumi o degli unguenti meravigliosi, di pallottole d’avorio traforato e di piccole statue di bronzo e d’oro raffiguranti Sommona Kodom.

      «Dov’è Len-Pra?» chiese il generale, lasciandosi cadere in una poltrona.

      Una voce armoniosa, dolcissima, si fece subito udire dietro le tende di seta che si gonfiavano sotto i soffi profumati dell’aria notturna, poi una fanciulla entrò, muovendo rapidamente verso il generale.

      Era Len-Pra.

      La figlia del vincitore dei Birmani e dei Cambogiani aveva una figurina graziosa, sottile come un giunco, squisitamente modellata; una bella testolina, un viso dai lineamenti perfino troppo regolari per una indocinese, un profilo quasi caucasico, una boccuccia perfetta, occhi nerissimi e lampeggianti come quelli di suo padre, leggermente obliqui.

      La bella capigliatura, nera e abbondante, le cadeva in pittoresco disordine sulla larga veste di seta azzurra a ricami d’oro; la pelle, quasi mai esposta al sole, era appena abbronzata, con sfumature che ricordavano certi riflessi dell’alba; aveva le braccia nude e adorne di ricchissimi braccialetti, e i piedi racchiusi in babbucce di seta gialla con ricami di perle, così piccoli da poter reggere vittoriosamente il confronto con quelli tanto decantati delle donne Cinesi.

      Vedendo suo padre così accasciato, quasi interamente abbandonato sulla poltrona, col viso cupo e lo sguardo semispento, Len-Pra mandò un grido.

      «Che cos’hai, padre mio?» gli chiese.

      «Nulla, fanciulla mia,» rispose il disgraziato generale, risollevandosi con uno sforzo supremo. «Sono semplicemente preoccupato per la malattia del S’hen-mheng

      «Tu stai male e sei oppresso da qualche cosa di più grave d’una preoccupazione,» disse la giovane.

      «No, non è nulla.»

      «È dunque gravemente ammalato anche l’ultimo dei S’hen-mheng?» chiese Len-Pra impallidendo.

      «È un po’ triste, tuttavia noi lo salveremo.»

      «Se dovesse morire?»

      «Non vi è alcun pericolo per ora. Fa’ portare la cena, e siedi presso di me, mia piccola Len-Pra. Desidero ritirarmi presto questa sera. Domani questa stanchezza sarà scomparsa.»

      La fanciulla percosse con un martelletto d’ebano un piccolo gong sospeso sotto la lampada, e poco dopo entrarono due giovani valletti portando, su dei grandi vassoi d’argento, parecchi tondi pieni di vivande fumanti, di frutta e di tuberi di varie specie.

      Il popolo siamese passa per uno dei più frugali della terra e anche per il meno esigente, quantunque, in quel regno fortunato, i viveri costino una vera miseria, così poco anzi che per un fund, ossia per circa cento lire, si possono comperare, su qualunque mercato, tre polli!…

      Il popolo si nutre ordinariamente al pari del cinese di riso, condito con un miscuglio puzzolente che somiglia, in peggio, al curry indiano, composto di gamberetti di mare lasciati prima putrefare e di parecchie erbe e droghe fortissime. Non sdegna però, specialmente il popolo campagnolo, i topi, le lucertole, le locuste, i vermi di terra. In ciò è eguale, per gusto, al cinese.

      I ricchi preferiscono invece i pesci freschi o salati che si vendono in quantità prodigiose sul mercato galleggiante di Bangkok, gli steli di bambù, i fagiolini ricciuti, conditi con olio di cocco, che se fresco, ha un sapore gradevolissimo, degno dei migliori olii della Riviera genovese e della Provenza; raramente invece mangiano polli e quasi mai carni d’animali, perché la loro religione proibisce di ucciderli, quantunque permetta loro di mangiarne se uccisi da altri che non siano Buddisti.

      Lakon-tay, che voleva nascondere le sue angosce e anche il triste disegno che meditava, si mise ad assaggiare le vivande portate, inaffiandole abbondantemente con tazze colme di trau, un liquore distillato dal riso, mescolato a calce ed a sciroppo di canna da zucchero, che i Siamesi pretendono sia atto a riparare le energie fisiche estenuate dalla continua traspirazione.

      Il disgraziato cercava di stordirsi e di acquistare un’allegria fittizia.

      Terminato il pasto, si fece portare la scatola d’oro regalatagli dal re, piena di noci di areche e di betel con un po’ di calce, e si mise a masticare lentamente quel miscuglio piccante, che annerisce i denti e che fa sputar saliva color del sangue, mentre Len-Pra preparava il tè, versandolo in microscopiche chicchere di porcellana cinese, sulle quali era dipinto, nello stile nazionale, il cielo degli Indù colle falangi dei thevada.

      «Mia dolce Len,» disse ad un tratto il generale, che da alcuni minuti era ricaduto nei suoi tristi pensieri. «Tu hai compiuto già da tre settimane i tuoi quindici anni, mentre io sono vecchio, e mi potrebbe da un momento all’altro toccare qualche disgrazia.»

      «Che

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