Mattinate napoletane. Di Giacomo Salvatore

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Mattinate napoletane - Di Giacomo Salvatore

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e vi si posava. Era Fortunata che pativa di curiosità. A ogni cinque minuti si levava per venire a guardare di sopra alle mie spalle, per esclamare: Quando si vedrà qualche cosa? Ci vuole ancora molto tempo? Lo fate ridendo? Verrà bene?

      Dopo la prima seduta il piccino volle vedere un po' anche lui, e si contemplò abbozzato appena, senza meraviglia di non riconoscersi, come consciente dello sviluppo che poi avrebbe avuto il dipinto.

      – Lo lascio qui, – dissi a Fortunata – mettetelo in un cantuccio, con la faccia al muro, e badate di non toccarlo.

      – Quando tornate?

      – Domani.

      – Certamente?

      – Certamente. Addio, piccino.

      E mi chinai su di lui per fargli un bacio. Egli mi mise la mano sulla faccia, respingendola.

      – Che hai? – gli disse Fortunata – su, fagli un bacetto.

      E soggiunse, sottovoce:

      – Dategli un soldo.

      – To', eccoti un soldo. Ora mi fai un bacio?

      Le sue piccole labbra febbricitanti toccarono lievemente le mie. Il secondo soldo scomparve con la manina in cui era stretto, sotto le coltri.

      – Ah, signorino, – mi disse Fortunata, presso la porta – il piccino è molto malato. Dice il medico, che l'ha visto, ch'egli ha male ai polmoni. Il primo figlio, signorino mio! – e le lagrime lo lucevano agli occhi-è una sventura grande! Avete visto com'è serio?

      – Via, fatevi cuore, è bambino e guarirà. Ha il suo babbo, è vero?

      – È andato via. È marinaro. È partito per pescare il corallo, con tutta la paranza. E torna di qui a un mese, signorino mio. Pel piccino va pazzo, se sapeste!..

      La lasciai così, che piangeva silenziosamente sul limitare della casuccia, con le braccia penzoloni, gli occhi a terra. Veramente quel dolore di giovane madre mi faceva male. Pensai a lei, al piccino, per tutta la via; pensai che sarebbe stato molto meglio se non avessi conosciuto nessuno di tutti e due…

      Tornato alla dimane, con una bella giornata di sole, ricominciai il mio lavoro. Il modello mi si dimostrava più amico, arrivava perfino a sorridermi. Quando rimisi la tela appoggiata al muro e stavo per licenziarmi, lui mi fece con la sottile vocina:

      – Vulite 'o vasillo?

      Io gli detti un altro soldino. Questa volta ebbi due piccoli baci su tutte e due le guance. Mi volsi uscendo. Lui mi salutava con la mano, levando il braccio nudo, sorridendomi.

      Ah, questo piccino malato, questo piccolo piccino pallido pallido, questa mia novella amicizia puerile! Tutto il giorno son rimasto a pensarvi.

      Dopo una settimana avevo finito. Ero contento; il ritratto m'era venuto somigliante non pure, quanto assai giusto di colore e d'intonazione. Il bianco dei cuscini col sole… Ma via, io non mi voglio fare delle lodi. Ero contento, ecco, ero contento della mia settimana. In tutti quei giorni il mio piccolo amico s'era più stretto a me con tutte le ingenue espansioni infantili con le quali la fanciullezza trattiene una mano carezzante e un dolce amore pietoso. Ogni giorno all'uscire dalla stanzetta piena di sole, fingevo di scordarmi della sua offerta, per sentire subitamente la vocina di lui, balbettante:

      – Vulite 'o vasillo? Vulite 'o vasillo?

* * *

      Gli aveva promesso di recarmi a vederlo due tre volte nella settimana; lo aveva promesso anche a Fortunata. Cominciato novembre, dovetti abbandonare i miei studi di mare e il vicolo Giganti. Questa Napoli ha un clima variabilissimo; una bella giornata calda, soleggiata e poi, al giorno appresso, acqua, vento e tempesta. A novembre pigliai una mezza bronchite che mi confinò nel letto per dodici giorni. Pioveva, pioveva sempre. Una grande malinconia, caro Paolo, dei tristi giorni e il padrone di casa che mi spediva messaggi e tutte le mie pratiche e le mie speranze quasi rovinate.

      Nei primi di dicembre, in un sabato, il tempo era bello. Uscii, tornai al vicolo Giganti tutto pieno di centinaia di femmine che aspettavano l'estrazione dei numeri del lotto e ne discutevano a gran voce. Cercai Fortunata. Era lì in casa a lavorare all'uncinetto, accosto alla tavola, sulla quale si raffreddava la minestra in un piatto. Quando mi vide, si levò, pallidissima; levò le braccia in atto disperato e si mise a piangere.

      – Signo'! È muorto! È muorto!

      Ti giuro, cominciai a piangere anche io, come un fanciullo. Ella, ricaduta a sedere, aveva poggiate le braccia sulla tavola e tra le braccia nascondeva il volto, singhiozzando. Io era rimasto in piedi, dinanzi a lei, muto; non sapevo che dirle. Fortunata levò la testa, mi guardò con occhi così spauriti, che parve fossi io che le portassi la mala notizia.

      Il ritratto del piccino era accapo al letto, tra un ramo di olivo e la palma benedetta. Accompagnandomi fin alla porta Fortunata mormorò tra i singhiozzi:

      – Mi disse che voleva vedervi… Dimandava sempre del pittore

      I singhiozzi la soffocavano.

      Me ne andai. Per via camminavo come intontito; il piccino, benedetto piccino, il piccolo amico mi seguiva. Mi seguiva la sua vocetta tenera, come ora mi parla mentr'io scrivo di lui a te. Perchè in questa malinconica mattina di marzo, egli è qui accosto a me. E nel silenzio della mia cameretta, egli mi ripete ancora, dolcemente, con un balbettìo d'angiolo:

      – Vulite 'o vasillo? Vulite 'o vasillo?

      SERAFINA

       Martedì – Maggio 86.

      Il guardaporta dello spedale dei Pellegrini è un burbero rossiccio, il quale, quando in certi giorni ha infilato un soprabito che gli batte alle calcagna, tutto stinto e sparso di macchie d'olio, quando ha caricata la testa d'una tuba mostruosa, crede di essere il guardaporta di Palazzo Reale. Ha conservato un accento calabrese e la insolenza dei soldati borbonici; certo ha dovuto servire nell'esercito di Re Mbomma. Tra l'altro poco ci vede, per una congiuntivite che gli arrossa tutto intorno le palpebre. Sarà stato per aver continuamente avuto sott'occhi gente insanguinata.

      Ieri questo cerbero digeriva il pranzo, trattenendosi a parlottare con un vecchietto, il quale gli faceva delle confidenze presso al casotto. Poco prima la campanella di avviso era sonata due volte – un tocco solo vuol dire: ferito semplice, – due vogliono dire: ferito in grave stato– tre: ferito moribondo. Era stata trasportata su, alla sala delle medicature, una donna, una giovane. Cinque coltellate, nè più, nè meno. La donna si lamentava, si guardava intorno smarrita, mormorando:

      – Sant'Anna mia! Ve faccio nu voto!.. Scanzateme!.. Uh! Uh!.. Chiano, chiano!..

      Veniva da Piazza Francese, da una delle due suburre napolitane. Aveva denti e capelli splendidi, una mano piccolissima. Gli occhi grandi, azzurri, pieni di lacrime, lucevano. Si chiamava Serafina.

* * *

      Laggiù, presso al casotto, il portinaio fumava la pipetta. Il gran cortile dei Pellegrini era tutto preso dal sole, così che il cuoco, un uomo grasso, ne profittava per sciorinare il suo gran moccichino, a quadroni scuri, sulla spalliera d'una seggiola. Due guardie di Pubblica Sicurezza leggevano insieme un libretto di Nuove canzoni napolitane, comentando. Il brigadiere era salito in sala di medicatura per raccogliere la deposizione di Serafina.

      Diceva

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