Mattinate napoletane. Di Giacomo Salvatore
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M'incatinasti, beddicchia, stu cori, ca l'apparienza…
Donna Nena, laggiù nel cortile, infilava l'ago, sceglieva tra i ritagli, rimaneva un pezzetto con lo sguardo perduto nella fuga degli archi. Le labbra mormoravano, dal pugno chiuso le dita si spiegavano, una dopo l'altra. Cantava. A un tratto, di sopra, la nenia del siciliano interrompendosi faceva tornare la vecchia, distratta, al suo lavoro. Il cortile si rifaceva silenzioso.
Al secondo anno da quando donna Nena era venuta a stare lassù, in una mattina di febbraio ella uscì – come disse a Gaetanella Rocco – per andare a pregare l'amministratore di quel locale perchè le facesse rimettere a un finestrino della celletta un vetro frantumato. Da un orto vicino i monelli glie lo avevano rotto: il vento le entrava in camera, proprio accapo al letto. Quando il vetro fu rimesso la vecchietta ebbe compagnia in casa. Ci venne un piccino malaticcio, debole, tutto pallido.
Da quel tempo ella si fece vedere più di frequente; il piccino aveva bisogno del latte alla mattina, di pane fresco, di frutta mature. Tutto questo faceva andare e venire dal cortile alle botteghe della via la vecchietta frettolosa, che per mostrarsi così tenera del bimbo almeno gli doveva molto voler bene.
Carmela la serva, pochi giorni dopo la comparsa del bambino, avendo appurato come e donde venisse, si contentò di perdere tempo e di far aspettare la padrona per andare a confidarsi con Fortunata la rivendugliola, vicina di Gaetanella. Tutte e tre sedettero attorno al braciere; Carmela a mezza seggiola, col paniere della spesa sulle ginocchia, per far presto.
– Donna Nena questo me l'aveva già detto un anno fa, ha una figliuola, si chiama Clelia. Due figlie le son morte di mal sottile e quest'altra…
S'interruppe, strinse le labbra, battè col palmo della mano sul manico del paniere, con un'aria desolata.
– Capite?..
– Eh! – sospirò la rivendugliola.
– Che ha fatto? – chiese Gaetanella.
– Come tant'altre, via… disgraziata… – disse la serva.
Sospirò anche Gaetanella, chinandosi a riattizzare il fuoco.
– Infine il piccino è rimasto a donna Nena, alla nonna. Clelia le avrà dato un po' di danaro per mantenerlo, non si vede mai lei: non comparisce mai. Glie l'ha messo nelle mani e buonanotte. Donna Nena, lo chiama er ragazzo.
—'O guaglione– tradusse Gaetanella.
– Ieri la vecchia m'ha fatta una confidenza. Non è vero che il vetro al finestrino glie lo han rotto dall'orto. Lo ruppe lei, tempo fa, sbattendo la vetrata. Non avrebbe detto nulla all'amministratore se non fosse capitato il piccino, ch'è malaticcio e debole. E col vento in casa…
– Sentite, – interruppe la rivendugliola – io vi do questo paio di calze pel piccino e voi glie le portate a donna Nena, poveretta. Direte che le avete avuto dalla signora vostra…
– Date qua – fece la serva, levandosi – che tutto è buono quand'è carità. Oggi glie le porto.
Un'altra volta la serva chiamò fuori nella via Gaetanella, la quale era occupata a riasciacquare i piatti.
– Clelia, la… capite?.. dev'esser morta. Ora ho chiesto alla vecchia se Clelia abbia più rivisto il piccino. S'è messa a piangere, la vecchia. Ho capito tutto.
Passarono sette mesi; morì pure donna Nena, spegnendosi a poco a poco nella sua celletta, col ragazzo che la guardava dal suo seggiolino, appiè del letto. Per un momento l'avevano lasciata sola, mentre dava gli ultimi tratti. Rientrate le vicine col ramoscello dell'olivo e l'acqua benedetta, trovarono la vecchia basita. Il piccino la guardava ridendo, balbettando. Un braccio di donna Nena fuori della coperta era steso rigidamente verso di lui, la mano pareva indicasse.
Fatto sta che, occupate a rovistare per la celletta, curiosando dappertutto, nei foderi di un canterano che gemevano come se nascondessero l'anima della vecchia, in un baule nello stipetto o muro, le vicine dimenticarono il bambino. Soltanto com'entrò lì dentro anche Graziella la sarta, con dietro la ragazzina curva sotto lo scatolo delle vesti, per vedere, mentre lei dinanzi al lettuccio, contemplava la morta coi grandi occhi pietosi, il piccino le prese fra mano la frangia di conterie che luceva attorno alla veste. Graziella si volse.
– Questo è il piccino di donna Nena – spiegò Gaetanella Rocco – il figlio della figlia.
– E la madre dov'è? – chiese Graziella.
L'altra benedì l'aria con la mano: l'indice e il medio ritti.
– Pure lei morta? – fece la sarta, intenerita.
E carezzò la testa bionda del piccino, il quale levò gli occhi a guardarla.
Subitamente irruppe la folla di tutti i monellucci del vicinato. Arrivava il carrozzone. Allora Gaetanella Rocco portò fuori il piccino, mettendogli in mano una ciambella. Gli trasse il seggiolino a bracciuoli fin presso alla porta del cortile che metteva, per le scale, rose dal tempo, sul Corso.
Poco dopo il carrozzone si portò via la vecchia per tutto il Corso. Il cocchiere zufolava, con le redini sulle ginocchia, col vento secco di faccia. Dietro, sulla predella, i due becchini si bisticciavano, le gambe penzoloni.
– Donna Nena se ne va a Roma – esclamò, ridendo, un calzolaio ch'era uscito a vedere dalla sua bottega, con uno stivale fra mani.
La facezia ebbe successo fra quanti guardavano. Donna Nena se ne andava a Roma! Buon viaggio! Le vicine ridevano. Rideva Nannina Fiocca, la innamorata del calzolaio. Quando gli passò accosto gli dette uno spintone.
– Bel core che hai!
– Senti – le fece dietro il calzolaio – presto lo farai anche tu il viaggetto…
Nannina si volse, grattandosi la coscia per allontanare il malagurio, e gli gridò con la voce argentina:
– Prima tu!
– Prima tu! – ribatteva il calzolaio, minacciandola con lo stivale.
Il tempo s'era fatto grigio. Di faccia al Corso, dal mare, saliva una nebbia densa come fumo di officina, lambiva le falde del Vesuvio, lo nascondeva fin quasi alla cima. Vagamente s'indovinava nel porto una gran nave; era una striscia tutta nera, indecisa. Intorno la città spariva in quel fumo che pareva covasse un incendio. Ma nel cielo affollato di nuvoloni, qua o là dei chiarori scialbi si facevano nel lontano, ove il sole all'estremo lembo in fine della collina di Posillipo, rompeva a fatica le nuvole. Vi fu un momento in cui la luce si allargò; lucevano disotto le vetrate alle finestre, luceva lo zinco delle serre alle terrazze delle palazzine al Rione Amedeo. Finalmente tutta una stesa di cielo diventò azzurra.
Il piccino lo avevano dimenticato sotto la porta del cortile. Egli sedeva, al sommo della scala diruta, nel suo seggiolino, con le manine sui bracciuoli. Sulle ginocchia aveva la ciambelletta di Gaetanella, mangiucchiata mezza: aveva un piccolo grembiale bianco, le scarpette molto vecchie, una vesticciuola scura, stinta, troppo grande per lui. In una scarpa il piede non era entrato tutto, ne scappava fuori il tallone ove faceva sacco la calza. Lui dondolava quel piede. A poco a poco la scarpetta ne cadde. Allora il piccino sorrise, tutto solo, molto contento. Contemplò, per un pezzetto,