Dopo il divorzio. Grazia Deledda
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Zia Bachisia a sua volta trascinò via Giovanna, che voleva seguire il marito; e la ricondusse in casa Porru per far colazione prima di recarsi alla Corte. Il sole inondava il cortile; sui pampini lucenti del pergolato, da cui pendevano lunghi grappoli d'uva acerba che parevano scolpiti in marmo verde, le rondini cantavano guardando il sole, e zio Efes Maria, montato sul suo cavallo baio, disponevasi a partire per la campagna. Che luce e che festa in quel cortile, cinto soltanto da un piccolo muro di pietre, e dal quale godevasi un vasto orizzonte! I bambini mangiavano la loro zuppa di caffè-latte seduti sul limitare della porta di cucina; Grazia era andata a mangiar la sua in un cantuccio, forse per non essere veduta dallo zio studente in quella prosaica operazione, mentre egli, in maniche di camicia, in piedi in mezzo al cortile, divorava il suo grande scodellone di zuppa. E zia Porredda gli lustrava le scarpe, tutta meravigliata per i racconti che andava narrandole il figliuolo.
– Come è grande San Pietro? (Bisogna spiegare che Paolo era stato solo quell'anno a Roma). Ebbene, è grande quanto una tanca. Non si può neppure pregare. Come si può pregare in una tanca? Gli angeli sono grandi come quella porta, gli angeli più piccini, sapete, quelli che sostengono la pila dell'acqua santa.
– Ah, allora bisogna metter la scala, per prender l'acqua.
– No, perchè essi sono inginocchiati, mi pare. Datemi un altro po' di caffè-latte, mamma. Ce n'è?
– Sicuro che ce n'è. Sei tornato ben affamato, piccolo Paolo mio: sembri un pesce-cane.
– Sapete quanto costa una zuppa così a Roma? Una lira, non meno. E il latte è acqua.
– Che sieno benedetti! È spaventevole ciò!
– Ah, sapete! Ho visto i delfini, in mare. Oh, come erano curiosi! Ah, ecco le ospiti. Buon giorno. Cosa avete fatto?
Giovanna raccontò l'incontro col marito, e voleva ricominciare a piangere, ma zia Porredda la prese per mano e la condusse in cucina.
– Oggi tu hai bisogno di forze, anima mia; mangia, mangia, – le disse, presentandole una gran tazza di caffè-latte.
Poco dopo le due donne uscirono per andare alla Corte d'Assise, e Paolo promise loro di raggiungerle.
– Coraggio! – disse zia Porredda, congedandosi da Giovanna.
Ella sentì già la condanna di suo marito nella voce dell'ospite, e andò via a testa bassa, come un cane frustato. Paolo la seguì con gli occhi, poi andò verso sua madre, zoppicando come un pulcino ferito, e le disse una cosa strana:
– Sentite. Non passeranno due anni che quella giovine riprenderà marito.
– Cosa dici, dottor Pededdu? – gridò la donna, che quando s'arrabbiava chiamava suo figlio col soprannome. – In verità mia, tu sei matto.
– Oh, mamma, io ho attraversato il mare! – disse egli. – Speriamo almeno che mi scelga per suo avvocato!
– Quel giovinetto! – diceva Giovanna a sua madre, mentre scendevano un ripido viottolo, – mangia come un cane, che Dio lo salvi.
Zia Bachisia camminava pensierosa, e rispose a denti stretti:
– Sarà un buon avvocato; rosicchierà i clienti fino all'osso: anzi li divorerà vivi e buoni.
Detto ciò tacquero entrambe. Ad un tratto zia Bachisia inciampò in un sassolino, e mentre inciampava, non si sa perchè, pensò che se Giovanna dovesse un giorno far divorzio, ella avrebbe pregato Paolo ad esser avvocato di sua figlia.
Erano le otto quando giunsero davanti la cattedrale, al cui fianco le piccole finestre del Tribunale riflettevano nei vetri la luminosità del mattino.
Nella piccola piazza di granito le due donne ritrovarono molti compaesani, testimoni del processo, alcuni dei quali le circondarono ripetendo la solita parola:
– Coraggio! coraggio!
– Ah, coraggio! Ma noi ne abbiamo, ma lasciateci in pace! – disse zia Bachisia, passando fiera come una cavalla indomita. Ella sapeva ben la strada e andò diritta all'aula triste e fatale.
Giovanna la seguì, seguirono i compaesani, uomini quasi tutti barbuti ed in rozzi costumi, ed entrò anche qualche curioso sfaccendato, ed anche una donna lunga e sdentata con gli occhi loschi.
I giurati, quasi tutti vecchi e grassi, sedevano già ai loro banchi; uno aveva un enorme naso aquilino, due con barbe folte e occhi selvaggi sembravano banditi, tre, aggruppati, con le teste vicine, ridevano leggendo un giornale.
Apparve il presidente, dal viso roseo circondato d'una scarsa barba bianca; il pubblico ministero, giovine, con baffi biondi diritti in un viso sanguigno di prepotente; il cancelliere, l'usciere: nelle toghe nere a Giovanna essi parevano maghi, feroci maghi venuti lì per stregare fatalmente il povero Costantino.
Egli stava nella gabbia, come un grande uccello fremente, tra le figure granitiche dei carabinieri, e guardava verso Giovanna, ma senza più sorriderle. Sembrava oppresso da cupa tristezza, e davanti a quegli uomini arbitri del suo destino, i suoi occhi limpidi di bambino s'offuscavano di terrore.
Anche Giovanna si sentì prendere il cuore da una mano di ferro; a momenti quella stretta le dava punture di dolore fisico.
L'avvocato, un piccolo giovine giallo-roseo, aveva cominciato a parlare con vocina stridula e femminile. La sua difesa era stata già abbastanza disgraziata: ora egli ripeteva le cose già dette, e le sue parole cadevano nel vuoto, come stille d'acqua in un gran vaso senza eco.
Il pubblico ministero dai baffi dritti conservava la sua aria insolente; qualche giurato credeva di far molto mostrando un viso paziente; gli altri, a giudicarli bene, si capiva che neppure ascoltavano. Soltanto zia Bachisia e Giovanna e l'accusato ponevano mente alla replica della difesa, e più l'avvocato parlava più si sentivano perduti.
Qualche altra persona giungeva, ponendosi dietro Giovanna, che ogni tanto volgevasi vivacemente per vedere se Paolo veniva. Non sapeva perchè, ma lo aspettava ansiosamente, quasi la presenza dello studente potesse giovare all'accusato.
Quando l'avvocato tacque, Costantino balzò in piedi, si fece rosso e chiese di parlare.
– Ecco… ecco… – disse con voce incerta, additando il difensore, – il signor avvocato ha parlato… mi ha difeso… ed io lo ringrazio; ma non ha parlato come volevo io… non ha detto, ecco, non ha detto…
Si fermò anelante.
Il presidente disse:
– Aggiungete pure alla vostra difesa tutto ciò che credete.
L'accusato rimase pensieroso ad occhi bassi, rifacendosi pallido: poi si passò la mano un po' convulsa sulla fronte, quasi graffiandosi, e sollevò il capo.
– Ecco, – cominciò a voce bassa, – io, io… – Non potè proseguire; strinse il pugno, si volse inviperito verso l'avvocato e gridò con voce tonante:
– Ma lo dica dunque che sono innocente, che sono innocente io!
L'avvocato mosse