Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 6. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 6 - Edward Gibbon

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      Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 6

      CAPITOLO XXIX

Ultima divisione dell'Impero Romano tra i figli di Teodosio. Regno d'Arcadio, e d'Onorio. Amministrazione di Ruffino e di Stilicone. Ribellione e disfatta di Gildone in Affrica

      A. 395

      Con Teodosio spirò il genio di Roma, poichè fu esso l'ultimo dei successori d'Augusto e di Costantino, che conducesse in campo gli eserciti e vedesse la sua autorità riconosciuta per tutta l'estensione dell'Impero. La memoria però delle sue virtù continuò tuttavia a difendere la debole ed inesperta età dei suoi figli. Dopo la morte del padre, Arcadio ed Onorio furono per unanime consenso del Mondo salutati come Imperatori legittimi dell'Oriente e dell'Occidente; fu ardentemente preso il giuramento di fedeltà da ogni ordine dello Stato, dai Senati dell'antica e della nuova Roma, dal Clero, dai Magistrati, da' Soldati e dal Popolo. Arcadio, che in quel tempo aveva l'età di circa diciotto anni, era nato in Ispagna nell'umile abitazione di una privata famiglia. Ma ricevè un'educazione principesca nel Palazzo di Costantinopoli; e passò l'ignobil sua vita in quella pacifica e splendida sede della real dignità, dalla quale pareva che regnasse sulle Province della Tracia, dell'Asia Minore, della Siria e dell'Egitto, dal Basso Danubio sino ai confini della Persia e dell'Etiopia. Onorio, fratello minore di lui, assunse, all'età d'undici anni, solo di nome il governo dell'Italia, dell'Affrica, della Gallia, della Spagna e della Britannia; e le truppe, che guardavano le frontiere del suo regno, s'opponevano ai Caledonj da una parte, ed ai Mori dall'altra. La grande e marzial Prefettura dell'Illirico restò divisa fra' due Principi: la difesa ed il possesso delle Province del Norico, della Pannonia e della Dalmazia sempre appartennero all'Impero Occidentale; ma le due vaste Diocesi della Dacia e della Macedonia, che Graziano aveva affidate al valor di Teodosio, furono per sempre unite all'Impero d'Oriente. I loro confini in Europa non eran molto diversi da quelli che ora separano i Germani dai Turchi, ed in quest'ultima e permanente divisione del Romano Impero furono ben bilanciati e compensati i rispettivi vantaggi del territorio, delle ricchezze, della popolazione e della forza militare. Parve che Io scettro ereditario dei figli di Teodosio fosse un dono della natura, e del padre loro; i Generali ed i Ministri erano assuefatti ad adorar la maestà dei reali fanciulli; e l'esercito ed il popolo non erano avvertiti dei loro diritti e del lor potere dal pericoloso esempio di una recente elezione. La scoperta, che appoco appoco si fece della debolezza d'Arcadio o d'Onorio, e le replicate calamità del lor Regno non furon bastanti a cancellare le profonde ed antiche impressioni della fedeltà. I sudditi Romani, che sempre venerarono le persone, o piuttosto i nomi dei loro Principi, riguardarono con uguale abborrimento i ribelli, che si opposero all'autorità del Trono, ed i ministri che ne abusarono.

      A. 386-395

      Teodosio aveva oscurato la gloria del suo Regno coll'elevazion di Ruffino, odioso favorito, che in un secolo di civile e religiosa fazione ha meritato da tutte le parti l'imputazione d'ogni delitto. Il forte impulso dell'ambizione e dell'avarizia1 aveva tratto Ruffino ad abbandonare il suo paese natìo, oscuro angolo della Gallia2, per avanzare la sua fortuna nella Capital dell'Oriente: il talento di un'ardita e facile elocuzione3 l'abilitò a riuscire nella lucrosa profession della legge; ed il buon successo, ch'egli ebbe in tal professione, lo fece regolarmente passare agl'impieghi più onorevoli ed importanti dello Stato. Fu egli a grado a grado innalzato fino al posto di Maestro degli Uffizi. Nell'esercizio delle sue varie funzioni, tanto essenzialmente connesse con tutto il sistema del governo civile, acquistò la confidenza di un Monarca, che presto conobbe la sua diligenza e capacità negli affari, e che rimase lungo tempo nell'ignoranza dell'orgoglio, della malizia e dell'avidità, a cui esso era disposto. Si nascondevano questi vizi sotto la maschera di una grandissima dissimulazione4; le passioni di lui non servivano che a quelle del suo Signore: pure nell'orrida strage di Tessalonica il crudel Ruffino infiammò il furore, senz'imitare il pentimento di Teodosio. Il Ministro, che rimirava con altiera indifferenza il resto dell'uman genere, non perdonò mai neppure l'apparenza di un'ingiuria; ed i suoi personali nemici avevan perduto secondo lui il merito di tutti i servigi pubblici. Promoto, Generale dell'infanteria, avea salvato l'Impero dall'invasione degli Ostrogoti; ma di mal animo soffriva la superiorità di un rivale, di cui sprezzava la professione e il carattere; e l'impaziente soldato in mezzo ad una pubblica assemblea fu provocato a punir con un colpo l'indecente orgoglio del favorito. Si rappresentò all'Imperatore quest'atto di violenza come un insulto, che alla sua dignità toccava di castigare. Si seppe la disgrazia e l'esilio di Promoto per mezzo di un ordine perentorio di portarsi senza dilazione ad un quartier militare sulle rive del Danubio; e la morte di quel Generale (quantunque restasse ucciso in una scaramuccia coi Barbari) fu imputata alle perfide arti di Ruffino5. Il sacrifizio di un Eroe soddisfece la sua vendetta; gli onori del Consolato elevaron la sua vanità; ma la sua potenza era sempre imperfetta e precaria; finattantochè gli importanti posti di Prefetto dell'Oriente e di Prefetto di Costantinopoli furon occupati da Taziano6 a da Procolo suo figlio; l'autorità unita dei quali bilanciò per qualche tempo l'ambizione e il favore del Maestro degli Uffizi. I due Prefetti furono accusati di rapina e di corruzione nell'amministrazione della giustizia e delle finanze. L'Imperatore costituì una speciale deputazione per fare il processo di quest'illustri delinquenti; furono eletti vari giudici ad aver parte nel delitto e nel rimorso dell'ingiustizia, ma il diritto di pronunziar la sentenza fu riservato al solo Presidente, e questi fu Ruffino medesimo. Il padre, spogliato della Prefettura dell'Oriente, fu cacciato in una prigione; ma il figlio, sapendo che pochi sono i ministri che si possano trovare innocenti, allorchè un nemico è loro giudice, era segretamente fuggito; e Ruffino avrebbe dovuto contentarsi della vittima meno colpevole, se il dispotismo non si fosse piegato ad usare il più basso e vile artifizio. Il processo fu fatto con tale apparenza d'equità e di moderazione, che lusingò Taziano della speranza di un favorevole evento; la sua fiducia s'accrebbe per le solenni assicurazioni ed i perfidi giuramenti del Presidente, che ardì mescolarvi il sacro nome di Teodosio medesimo, e l'infelice padre s'indusse finalmente a richiamare con una privata lettera il fuggitivo Procolo. Questi fu immediatamente arrestato, sottoposto all'esame, condannato e decapitato in uno dei sobborghi di Costantinopoli con una precipitazione che sconcertò la clemenza dell'Imperatore. Senza rispettar le disgrazie di un Senator Consolare, i crudeli giudici di Taziano lo costrinsero a rimirare l'esecuzione del suo figlio: era già stata posta al collo di lui stesso la corda fatale: ma nel momento, in cui aspettava, e forse desiderava il sollievo di una pronta morte, gli fu permesso di passare il misero avanzo di sua vecchiezza nella povertà e nell'esilio7. La pena dei due Prefetti si poteva per avventura scusare con le parti riprensibili di lor condotta; poteva palliarsi l'inimicizia di Ruffino con la gelosa ed insociabil natura dell'ambizione. Ma egli si lasciò trasportare da uno spirito di vendetta ugualmente contrario alla prudenza, che alla giustizia, quando tolse al natìo loro paese di Licia il grado di provincia Romana; notò un innocente popolo di una marca d'ignominia; e dichiarò che i concittadini di Taziano e di Procolo dovessero per sempre restare incapaci di godere alcun impiego d'onore o vantaggio sotto il governo Imperiale8. I più rei fatti però non impedivano al nuovo Prefetto dell'Oriente (poichè Ruffino immediatamente successe agli onori vacanti del suo avversario) di eseguire quei religiosi doveri, che in quel tempo si risguardavano come più essenziali per la salute. Aveva fabbricato nel sobborgo di Calcedonia, chiamato la Quercia, una magnifica villa, alla quale aveva devotamente aggiunto una splendida Chiesa consacrata agli Apostoli S. Pietro e S. Paolo, e continuamente santificata dalle preghiere e dalla penitenza di una regolare società di Monaci. Si convocò un numeroso e quasi general concilio dei Vescovi dell'Impero Orientale per celebrare nel medesimo tempo la dedicazion della Chiesa ed il Battesimo del Fondatore. Si fece questa doppia ceremonia con pompa straordinaria; e quando Ruffino fu purgato nel sacro fonte da tutte le colpe, che aveva fin allora commesse, un venerabil eremita dell'Egitto imprudentemente si presentò per mallevadore di un altiero ed ambizioso politico9.

      A. 395

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<p>1</p>

Aletto, invidiosa della pubblica felicità, convoca un concilio infernale, Megera le raccomanda Ruffino suo allievo e l'eccita a far del male ec. Ma v'è tanta differenza fra la furia di Claudiano e quella di Virgilio, quanta n'è fra i caratteri di Turno e di Ruffino.

<p>2</p>

Egli è evidente (Tillemont Hist. des Emp. Tom. V. p. 770), quantunque il de Marca si vergogni di tal compatriota, che Ruffino era nato in Elusa, Metropoli della Novempopulania, ora piccolo villaggio della Guascogna: Danville Notic. de l'anc. Gaul. p. 289.

<p>3</p>

Filostorg. l. XI, c. III. colle Dissertazioni del Gotofred. p. 440.

<p>4</p>

Un passo di Suida esprime la sua profonda dissimulazione; Βαθυγνωμων αυθρωπος και κρυψὶνος; uomo taciturno e cupo.

<p>5</p>

Zosimo l. IV. p. 272, 273.

<p>6</p>

Zosimo, che descrive la caduta di Taziano e del suo figlio (l. V. p. 273, 274), asserisce la loro innocenza; e può anche la sua testimonianza preponderare alle accuse dei loro nemici (Cod. Teod. T. IV. p. 489) che gli accusano d'aver oppresso le Curie. La connessione, ch'ebbe Taziano con gli Arriani, quando fu Prefetto d'Egitto (an. 373), fa inclinare il Tillemont a credere, che fosse reo d'ogni delitto. Hist. des Emp. Tom. V. p. 360 Mem. Eccl. Tom. VI. p. 589.

<p>7</p>

Juvenum rorantia colla

Ante patrum vultus stricta cecidere securi.

Ibat grandaevus nato moriente superstes

Post trabeas exul

In Ruffin. I. 248.

I fatti di Zosimo spiegano le allusioni di Claudiano; ma i principali suoi interpreti non conoscevano la storia del quarto secolo. Io trovo coll'aiuto del Tillemont la fatal corda in un discorso di S. Asterio d'Amasca.

<p>8</p>

Quest'odiosa legge vien riferita e confermata da Arcadio (an. 396) nel codice Teodosiano lib. IX. Tit. XXXVIII. leg. 9. Il senso della medesima come viene spiegato da Claudiano (in Ruffin. I. 234) e dal Gotofredo (Tom. III p. 279), è perfettamente chiaro.

… Exscindere cives

Funditus, et nomen gentis delere laborat.

Gli scrupoli del Pagi e del Tillemont non posson nascere che dal loro zelo per la gloria di Teodosio.

<p>9</p>

Amonius… Ruffinum propriis manibus suscepit sacro fonte mundatum. Vedi Rosweyde Vit. Patrum p. 947. Sozomeno (l. VIII c. 17) fa menzione della Chiesa e del Monastero, ed il Tillemont (Mem. Eccl. Tom. IX. p. 593) rammenta questo sinodo, in cui S. Gregorio Nisseno fece una cospicua figura.