Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 6. Edward Gibbon
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Читать онлайн книгу Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 6 - Edward Gibbon страница 20
Nelle città popolate, che sono la sede del commercio e delle manifatture, gli abitanti di mezza condizione, che traggono la lor sussistenza dalla destrezza o dal lavoro delle proprie mani, formano per ordinario la più feconda, la più utile, ed in questo senso la più rispettabile parte della società. Ma i plebei di Roma, che sdegnavano tali sedentarie e servili arti, si eran trovati oppressi fino dai più antichi tempi dal peso del debito e dell'usura, e l'agricoltore, nel tempo del suo servizio militare, era costretto ad abbandonar la cultura delle sue terre232. I terreni dell'Italia che a principio erano stati divisi fra le famiglie di liberi ed indigenti proprietari, appoco appoco furono comprati o usurpati dall'avarizia dei nobili, e nel secolo, che precedè la rovina della Repubblica, fu calcolato, che solo duemila cittadini possedevano qualche fondo indipendente233. Pure finattantochè il popolo dava co' suoi voti gli onori dello Stato, il comando delle legioni, e l'amministrazione di ricche Province, l'orgogliosa soddisfazione che ne risentiva, sollevava in qualche modo i travagli della povertà; ed i bisogni dei plebei venivano diminuiti opportunamente dall'ambiziosa liberalità dei candidati, che aspiravano ad assicurarsi una venale pluralità di voti nelle trentacinque Tribù; o nelle cento novanta tre centurie di Roma. Ma quando i prodighi plebei ebbero imprudentemente alienato non solamente l'uso, ma anche la proprietà del potere, si ridussero nel regno dei Cesari ad una vile e miserabil plebaglia, che in poche generazioni avrebbe dovuto del tutto estinguersi, se non si fosse continuamente sostenuta dalla manumissione degli schiavi e dal ribocco degli stranieri. Fino dai tempi d'Adriano, giustamente dolevansi gl'ingenui nativi, che la capitale aveva tirato a sè i vizi dell'Universo, ed i costumi delle nazioni fra lor più contrarie. L'intemperanza dei Galli, l'astuzia e la leggerezza dei Greci, la selvaggia ostinazione degli Egizj e degli Ebrei, il servile carattere degli Asiatici, e la dissoluta ed effeminata prostituzione dei Sirj, s'erano mescolate nella varia moltitudine di uomini, che, sotto la superba e falsa denominazione di Romani, ardivano di sprezzare i loro compagni di sudditanza, e fino i loro Sovrani, che abitavano fuori del recinto dell'eterna città234.
Ciò non ostante si pronunziava sempre con rispetto il nome di quella città; eran tollerati senza castigo i frequenti e capricciosi tumulti dei suoi abitatori; ed i successori di Costantino, invece di togliere affatto gli ultimi residui della democrazia colla forza della milizia, preferirono la dolce politica d'Augusto, e procurarono di sollevare la povertà e divertir la pigrizia d'un innumerabile popolo235. I. Per comodo degli oziosi plebei le mensuali distribuzioni di grano si convertirono in una giornaliera porzione di pane; furono fatti e mantenuti a spese pubbliche molti forni, ed all'ora stabilita ogni cittadino, che aveva il suo contrassegno, saliva per quella scala che era stata determinata pel suo particolar quartiere o divisione, e riceveva o in dono o ad un bassissimo prezzo una quantità di pane del peso di tre libbre per uso della sua famiglia. II. Le foreste della Lucania, le cui ghiande ingrassavano grossi armenti di porci selvaggi236, somministravano, come una specie di tributo, un'abbondante quantità di cibo sano e a buon mercato. Per cinque mesi dell'anno distribuivasi ai cittadini più poveri una regolar quantità di lardo; e l'annuo consumo della Capitale, in un tempo in cui era molto decaduta dall'antico suo lustro, fu determinato in un editto di Valentiniano III a tre milioni seicento ventottomila libbre237. III. Secondo i costumi degli antichi era indispensabile l'uso dell'olio, pei lumi ugualmente che pei bagni, e l'annua tassa, imposta sull'Affrica pel bisogno di Roma, ascendeva al peso di tre milioni di libbre, vale a dire alla misura forse di trecentomila galloni inglesi. IV. L'ansietà ch'ebbe Augusto di provveder la Metropoli di una sufficiente abbondanza di grano, non si estese al di là di questo necessario articolo dell'umana sussistenza; e quando il clamor popolare accusava il caro prezzo e la scarsezza del vino, il grave riformatore promulgò un editto, in cui rammentava ai suoi sudditi, che nessuno aveva ragione di dolersi della sete, mentre gli acquedotti d'Agrippa avevano introdotto nella città tante copiose fonti di acqua pura e salubre238. Si rilassò appoco appoco questa rigida sobrietà; e quantunque non sembri, che si eseguisse in tutta la sua estensione il generoso disegno di Aureliano239, si concedeva l'uso del vino a condizioni assai facili e liberali. Era affidata l'amministrazione delle cantine pubbliche ad un onorevole Magistrato, ed una parte considerabile della vendemmia della Campania riserbavasi pei felici abitanti di Roma.
Gli stupendi acquedotti sì giustamente celebrati dalle lodi di Augusto medesimo, riempivano le terme o i bagni, che s'erano edificati in ogni parte della città con Imperiale magnificenza. I bagni d'Antonino Caracalla, ch'erano aperti in certe ore determinate per uso comune dei Senatori e del Popolo, contenevano più dei mille seicento sedili di marmo, e più di tremila se ne contavano in quelli di Diocleziano240. Le mura dei superbi quartieri eran coperte di curiosi Mosaici, che imitavano l'arte del pennello nell'eleganza del disegno, e nella varietà dei colori. Il granito Egiziano era graziosamente incrostato col prezioso marmo verde di Numidia; una perpetua corrente d'acqua calda versavasi per tante larghe bocche di massiccio lucido argento in gran vasche; e l'infimo dei Romani poteva con una piccola moneta di rame comprarsi il continuo spettacolo d'una scena di pompa e di lusso, che avrebbe potuto eccitar l'invidia dei Monarchi dell'Asia241. Da queste splendide fabbriche usciva uno sciame di sordidi e stracciati plebei senza scarpe e senza mantello, che andavano tutto il giorno vagando per le strade o nel foro a udir nuove, o a far dispute; e che dissipavano in stravaganti giuochi la miserabile sussistenza delle mogli e dei figli; e consumavano le ore della notte in oscure taverne e ridotti, intesi a soddisfare una grossolana e volgare sensualità242.
Ma il più vivo e splendido divertimento dell'oziosa moltitudine dipendeva dalla frequente rappresentazione dei pubblici giuochi e spettacoli. La pietà dei Principi Cristiani aveva soppresso i crudeli combattimenti dei gladiatori; ma il Popolo Romano risguardava tuttavia il circo come la propria casa, il suo tempio, e la sede della Repubblica. L'impaziente moltitudine
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Macrobio, amico di quei nobili Romani, risguardava le stelle come la causa o almeno i segni de' futuri eventi (
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Le storie di Livio (vedi specialmente lib. VI c. 36) son piene dell'estorsioni dei ricchi, e delle angustie dei poveri debitori. La patetica istoria di un bravo antico soldato (Dionis. Alicanass. l. V. c. 26. pag. 347.
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Vedi la terza satira v. 60-125. di Giovenale, che deplora con isdegno.
… Quamvis quota portio faecis Achaeae?
Jampridem Syrus in Tiberim defluxit Orantes;
Et linguam et mores etc.
Seneca proponendosi di consolare la propria madre (
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Quasi tutto quello che si è detto del pane, del lardo, dell'olio, del vino etc. può trovarsi nel lib. XIV. del Codice Teodosiano, che tratta espressamente del governo delle grandi città. Si vedano in specie i
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L'anonimo autore della Descrizione del Mondo (p. 14. nel
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Vedi
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Sueton.,
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Il suo disegno era di piantar vigne lungo le coste marittime dell'Etruria; Vopisc.,
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Olimp.,
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Seneca (
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Ammiano (l. XIV. c. 6, e lib. XXVIII. c. 4) dopo aver descritto il lusso e l'orgoglio dei Nobili Romani, espone con uguale indignazione i vizi e le follie della plebe.