Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 8. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 8 - Edward Gibbon

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armi, intimò guerra implacabile contro gli adoratori del fuoco. Ma la proposizione intorno al commercio della seta non andò al segno, e malgrado le proteste, e forse i desiderii degli Abissini, le minacce ostili si dileguarono senza verun effetto. Gli Omeriti non eran punto vogliosi di togliersi dagli aromatici loro boschetti, per valicare un sabbioso deserto, ed incontrar dopo tante fatiche una formidabil nazione da cui non avevan mai ricevuto alcuna personale offesa. Invece di estendere le sue conquiste, il Re di Etiopia non fu abile a difendere i suoi possessi. Abrahah, schiavo d'un mercante romano stabilito in Aduli, si appropriò lo scettro degli Omeriti; le truppe dell'Affrica restarono sedotte dalle delizie del clima; e Giustiniano richiese l'amicizia dell'Usurpatore, il quale onorò, con un tenue tributo, la supremazia del suo Principe. Dopo una lunga serie di prosperità, la potenza di Abrahah andò sossopra innanzi alle porte di Mecca; il Conquistatore persiano spogliò del retaggio i suoi figli, e gli Etiopi furono finalmente cacciati dal continente dell'Asia. Questo racconto di avvenimenti oscuri e remoti non è straniero al declino ed alla caduta del romano Impero. Se la potenza cristiana si fosse mantenuta nell'Arabia, Maometto sarebbe stato spento nella sua culla, e l'Abissinia avrebbe impedito una rivoluzione che ha mutato di aspetto lo stato civile e religioso del mondo100.

      CAPITOLO XLIII

      Ribellioni d'Affrica. Restaurazione del regno de' Goti, per opera di Totila. Perdita e riacquisto di Roma. Conquista definitiva dell'Italia, fatta da Narsete. Estinzione degli Ostrogoti. Disfatta de' Franchi e degli Alemanni. Ultima vittoria; disgrazia, e morte di Belisario. Morte e carattere di Giustiniano. Cometa, terremoti e pestilenza.

      La rassegna a cui furono passate le varie nazioni dal Danubio al Nilo, ha posto in luce per ogni parte la debolezza dei Romani, e ragionevolmente ci possiamo maravigliare ch'essi pretendessero di allargare un Impero, del quale non potevano difendere gli antichi confini. Ma le guerre, le conquiste ed i trionfi di Giustiniano sono i deboli e perniciosi sforzi della vecchiaja, che esaurisce gli avanzi della sua forza ed accelera la decadenza delle vitali facoltà. Lieto e superbo egli andava di aver restituito l'Affrica e l'Italia al dominio della Repubblica; ma le calamità che seguiron la partenza di Belisario, diedero a divedere l'importanza del Conquistatore, e compirono la rovina di queste sventurate contrade.

      Giustiniano era venuto in opinione che le sue nuove conquiste dovessero riccamente soddisfare la sua avarizia non men che il suo orgoglio. Un rapace ministro delle Finanze teneva dietro ai passi di Belisario, e siccome i vecchi registri de' tributi erano stati arsi dai Vandali, egli dava pascolo alla sua fantasia con un computo liberale ed un'arbitraria tassazione delle ricchezze dell'Affrica.101 L'accrescimento delle imposte ch'erano levate per conto di un Principe lontano, e la forzata restituzione di tutte le terre che avevano appartenuto alla corona, subitamente fece sparir l'ebbrietà della pubblica gioja. Ma l'Imperatore mostrossi insensibile alle modeste lagnanze del Popolo, finchè fu desto ed atterrito dai clamori del militare disgusto. Molti soldati Romani avevano sposate le vedove e le figlie dei Vandali: essi richiamarono come proprj, pel doppio diritto della conquista e della eredità, i terreni che Genserico aveva assegnati alle vittoriose sue truppe. Con disdegno ascoltarono le fredde ed interessate rappresentazioni dei loro uffiziali che ad essi esponevano, come la liberalità di Giustiniano gli aveva sollevati da uno stato selvaggio e da una servil condizione; che s'erano di già arricchiti colle spoglie dell'Affrica, coi tesori, cogli schiavi e colle masserizie dei vinti Barbari: e che l'antico e legittimo patrimonio dell'Imperatore non doveva applicarsi che al sostegno di quel Governo, dal quale in ultimo dipendevano la sicurezza e le ricompense loro. L'ammutinamento fu in segreto infiammato da un migliaio di soldati, per la maggior parte Eruli, che avevano attinto le dottrine, ed erano instigati dal Clero della setta Arriana: e la causa dello spergiuro e della ribellione veniva santificata dal fanatismo che si arroga la facoltà di dispensare da ogni dovere. Gli Arriani deplorarono la rovina della lor Chiesa che per più di un secolo aveva trionfato nell'Affrica, e giustamente erano adontati per le leggi del Conquistatore, che proibivano il Battesimo dei loro figliuoli e l'esercizio di ogni Culto religioso. La massima parte dei Vandali, scelti da Belisario, dimenticarono la loro patria e la lor religione negli onori dell'Orientale servizio. Ma una generosa schiera di quattrocento di loro costrinse i marinai, quando furono in vista dell'Isola di Lesbo, a volgere il corso altrove: essi approdarono nel Peloponneso, poi diedero in secco sopra la costa deserta dell'Affrica, ed audacemente rizzarono, sul monte Aurasio, la bandiera dell'indipendenza e della rivolta. Nel tempo che le truppe della provincia ricusavano di obbedire ai loro superiori, in Cartagine si tramava una congiura contro la vita di Salomone, il quale onorevolmente teneva il luogo di Belisario: e gli Arriani avevano piamente deliberato di sacrificare il Tiranno al piede degli altari, durante la celebrazione degli augusti misteri della festa di Pasqua. Il timore ed il rimorso rattenne i pugnali degli assassini, ma la pazienza di Salomone porse ardire ai malcontenti, ed in capo a dieci giorni, si accese nel Circo una sedizione furiosa, che desolò l'Affrica per più di dieci anni. Il saccheggio delle città e l'indistinto scempio de' suoi abitatori, non furono sospesi che dalle tenebre, dal sonno e dall'ubbriachezza: il Governatore con sette compagni, tra quali era lo storico Procopio, se ne fuggì in Sicilia. Due terzi dell'esercito parteciparono di questo tradimento, ed ottomila sollevati radunatisi nei campo di Bulla, elessero per loro Capo Soza, soldato semplice che possedeva in altissimo grado le virtù di un ribelle. Sotto la maschera della libertà, la sua eloquenza sapeva guidare od almeno sospingere le passioni de' suoi eguali. Egli alzossi a livello di Belisario e del nipote dell'Imperatore coll'ardire ch'ebbe di affrontargli in campo; ed i vittoriosi Generali furono costretti a confessare che Soza meritava una causa più pura ed un più legittimo comando. Vinto in battaglia, egli destramente pose in pratica le arti della negoziazione; un esercito Romano fu sedotto dalle sue proteste di fedeltà, ed i Capi che si eran fidati alle sue fallaci promesse, caddero trucidati, per suo ordine, in una Chiesa di Numidia. Allorchè ogni ripiego sì di forza che di perfidia fu esausto, Soza con alcuni Vandali disperati si riparò nei deserti della Mauritania, ottenne in isposa la figlia di un Principe Barbaro, e deluse i nemici che lo inseguivano col far girar un falso grido della sua morte. La personale autorità di Belisario, la dignità, l'ardire e l'indole di Germano, nipote dell'Imperatore, ed il rigore ed il buon successo della amministrazione dell'eunuco Salomone restituirono la modestia nel Campo e mantennero per un tempo la tranquillità dell'Affrica. Ma i vizj della Corte Bizantina si facevano sentire in quella distante provincia; i soldati si lamentavano di non ricevere nè paga, nè soccorso, e tosto che i disordini pubblici furono abbastanza maturi, Soza ricomparve vivo, in armi ed alle porte di Cartagine. Egli cadde in un singolare cimento; ma sorrise, fra le agonie della morte, nel sentire che il proprio dardo aveva traspassato il cuore del suo antagonista. L'esempio di Soza e la sicurezza che un soldato felice è stato il primo Re, commossero l'ambizione di Gontari, il quale promise con privato accordo di spartir l'Affrica coi Mori, se mercè del loro pericoloso ajuto egli poteva ascendere al trono di Cartagine. Il debole Areobindo, inesperto negli affari della pace e della guerra, mediante il suo matrimonio colla nipote di Giustiniano venne innalzato all'uffizio di Esarca. All'improvviso egli fu oppresso da una sedizione delle guardie, e le abbiette sue suppliche, che provocarono il disprezzo, non poteron muovere la pietà dell'inesorabil Tiranno. Dopo un regno di trenta giorni, Gontari istesso fu spento in un banchetto dal coltello di Artabano; ed è singolare il vedere che un principe Armeno, della stirpe reale degli Arsaci dovesse ristabilire in Cartagine l'autorità del romano Impero. Nella cospirazione che sguainò il pugnale di Bruto contro la vita di Cesare, ogni circostanza riesce curiosa ed importante agli occhi della posterità: ma la reità od il merito di questi leali o ribelli assassinj non poteva interessare che i contemporanei di Procopio, i quali dalla speranza o dal timore, dall'amicizia o dal risentimento erano personalmente impegnati nelle rivoluzioni dell'Affrica102.

      Quella contrada andava rapidamente ricadendo nello stato di barbarie d'onde l'avevano tratta le colonie fenicie e le leggi romane: ogni passo d'intestina discordia era contrassegnato da qualche deplorabili vittoria degli uomini selvaggi sopra la società incivilita. I Mori103, tutto che ignorasser la giustizia, impazientemente però comportavano l'oppressione: la vagabonda lor vita e gl'illimitati deserti in cui abitavano, inutili

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<p>100</p>

Le rivoluzioni dell'Yemen nel sesto secolo si debbono raccogliere da Procopio (Persic. l. I c. 19, 20), da Teofane Bizantino (apud Phot. cod. 63 p. 80), da S. Teofane (in Chronograph. p. 144, 145, 188, 189, 206, 207, ch'è piena di strani abbagli), da Pocock (Specimen Hist. Arab. p. 62, 63), da D'Herbelot (Bibliot. Orient. p. 12-477) e dal Discorso preliminare e Corano di Sale (c. 105). La rivolta di Abrahah è ricordata da Procopio; e la sua caduta, benchè annuvolata da miracoli, è un fatto istorico.

<p>101</p>

Per le turbolenze dell'Affrica, io non ho, nè desidero di aver altra guida fuorchè Procopio, il qual vide co' proprj occhi i memorabili avvenimenti de' suoi tempi, o ne raccolse colle proprie orecchie il racconto. Nel secondo libro della guerra Vandalica, egli narra la ribellione di Stoza (c. 12-24), il ritorno di Belisario (c. 15), la vittoria di Germano (c. 16, 17, 18), la seconda amministrazione di Salomone (c. 19, 20, 21), il governo di Sergio (c. 22, 23), di Areobindo (c. 24), la tirannia e morte di Gontari (c. 25, 26, 27, 28); nè posso discernere alcun segno di adulazione o di malevolenza nei suoi diversi ritratti.

<p>102</p>

Non posso però ricusargli il merito di pingere, con vivaci colori, l'assassinio di Gontari. Uno degli uccisori manifestò sensi non indegni di un cittadino romano: «Se io fallisco, disse Artasire, il primo colpo, uccidetemi immediatamente, affinchè le torture non abbiano da strapparmi di bocca la confessione de' miei complici».

<p>103</p>

Le guerre contro i Mori sono per occasione introdotte nel racconto di Procopio (Vandal. l. II c. 19, 23, 25, 27, 28. Gothic. l. IV c. 17); e Teofane aggiunge alcuni avvenimenti, prosperi ed avversi, che si riferiscono agli ultimi anni di Giustiniano.