Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 8. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 8 - Edward Gibbon

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dalla città, ovvero ordinasse l'immediato loro supplizio. Bessa, con insensibile calma, rispose che egli non poteva nutrire, non gli conveniva di lasciar partire, e non aveva il diritto di uccidere i sudditi dell'Imperatore. Non pertanto, l'esempio di un cittadino privato avrebbe potuto mostrare a' suoi compatriotti che un Tiranno non può togliere il privilegio di morire. Trafitto dalle grida di cinque figli che vanamente dimandavan del pane, egli ordinò a questi che gli venissero dietro; si avanzò, con tranquilla e tacita disperazione, sopra uno dei ponti del Tevere, e copertosi il volto, si gettò capovolto nel fiume, al cospetto della sua famiglia e del Popolo romano. Ai ricchi e pusillanimi, Bessa112 vendeva il permesso di partire, ma la maggior parte de' fuggiaschi rendeva l'anima sulle pubbliche strade, od era arrestata dai volanti drappelli dei Barbari. In quel mezzo, l'artifizioso Governatore blandiva il maltalento e ridestava le speranze dei Romani colla vaga riferta di flotte e di eserciti che accorrevano in loro aiuto dalla estremità dell'Oriente. Più ragionevol conforto essi trassero dalla sicura nuova che Belisario avea pigliato terra nel porto del Tevere, e senza numerarne le forze, essi fermamente confidarono nell'umanità, nel coraggio e nella perizia del loro grande liberatore.

      La previdenza di Totila avea preparato ostacoli degni di un tale antagonista. Novanta stadii sotto la città, nella parte più ristretta del fiume, egli congiunse le due rive, mediante una forte e solida opera di legname nella forma di un ponte, su cui innalzò due gran torri, custodite da' più valorosi de' suoi Goti, e piene di armi scagliabili e di macchine offensive. Una valida e massiccia catena di ferro difendeva l'approccio del ponte e delle torri; e la catena, da un capo all'altro, sulle sponde opposte del Tevere, era guardata da una numerosa e scelta mano di arcieri. Ma l'impresa di sforzare queste barriere e di soccorrere la capitale ci presenta uno splendido esempio dell'ardire e della condotta di Belisario. La sua cavalleria si avanzò dal Porto, lungo la strada maestra, per tenere a freno i movimenti e divertire l'attenzione del l'inimico. L'infanteria e le provvigioni erano distribuite in due cento grossi battelli, ed ogni battello era schermito da un alto riparo di spesse tavole, traforate da molti piccoli pertugi per la scarica delle armi da lanciare. Nella fronte, due grandi navi, insieme legate, sostenevano un castello ondeggiante, che dominava le torri del ponte, e conteneva un magazzino di fuoco, di zolfo e di bitume. La flotta intiera, condotta dal Generale in persona, fu laboriosamente sospinta contro la corrente del fiume. Cedè la catena al peso di essa, ed i nemici che custodivano le rive furono ammazzati o dispersi. Tosto che la flotta toccò la principale barriera, la macchina incendiaria in un momento fu aggrappata al ponte; una delle torri, con dugento Goti dentro, andò in fiamme; gli assalitori alzarono il grido della vittoria, e Roma era salvata, se la cattiva condotta degli Ufficiali di Belisario non avesse sovvertito gli effetti della sua sapienza. Egli precedentemente avea mandato ordine a Bessa di secondar le sue operazioni con un'opportuna sortita dalla città, ed aveva imposto ad Isacco suo luogotenente, di non abbandonare la stazione del Porto. Ma l'avarizia rendè Bessa immobile; mentre il giovanile ardore d'Isacco lo diede nelle mani di un superiore nemico. L'esagerato romore della disfatta di costui rapidamente pervenne all'orecchio di Belisario: egli ristette, lasciò vedere, in quel solo momento della sua vita, qualche emozione di sorpresa e di perplessità, e con ripugnanza fece suonare la raccolta per salvar la sua moglie Antonina, i suoi tesori ed il solo porto che possedesse sulle coste della Toscana. Il travaglio del suo animo gli produsse una febbre ardente e quasi mortale: e Roma rimase abbandonata senza difesa alla clemenza od allo sdegno di Totila. La continuazione delle ostilità aveva invelenito gli odii nazionali; il clero Arriano fu ignominiosamente cacciato di Roma. L'Arcidiacono Pelagio tornò, senza alcun successo, dal campo dei Goti ove era andato ad Ambasciatore, ed un Vescovo Siciliano, inviato o nunzio del Papa, ebbe mutilate ambe le mani per avere ardito di mentire in benefizio della Chiesa e dello Stato.

      La carestia aveva rilassato la forza e la disciplina del presidio di Roma. Esso non poteva ricavare alcun servizio efficace da un Popolo moribondo; e l'inumana avarizia del Mercatante finì con assorbire la vigilanza del Governatore. Quattro sentinelle Isauriche, mentre dormivano i loro compagni ed assenti erano gli Ufficiali, si calarono con una corda giù dal bastione, e segretamente proposero al Re Goto d'introdurre le sue truppe nella città. Con freddezza e sospetto fu accolta l'offerta; essi ritornarono senza alcun danno; due volte ripeterono la visita loro; due volte fu esaminata la piazza; si riseppe la cospirazione, ma non vi si pose mente; ed appena Totila ebbe acconsentito al tentativo, essi dischiusero la porta Asinaria, e misero dentro i Goti. Questi fecero alto in ordine di battaglia, sino allo schiarire del giorno, temendo un qualche tradimento od aguato; ma le truppe di Bessa, insieme col lor condottiere, avevano già cercato altrove uno scampo; ed allorquando si fece istanza al Re perchè ne infestasse la ritirata, assennatamente egli rispose che nessuna vista era più grata che quella d'un nemico fuggente. I Patrizii a cui restava qualche cavallo, Decio, Basilio ec. accompagnarono il Governatore: i loro confratelli, tra i quali l'Istorico nomina Olibrio, Oreste e Massimo, cercarono nella chiesa di San Pietro un asilo: ma l'asserzione che non più di cinquecento persone rimasero nella capitale, inspira qualche dubbio intorno alla fedeltà della sua narrazione o del suo testo. Subito che la luce del sole ebbe manifestato intera la vittoria dei Goti, il loro Monarca divotamente visitò la tomba del Principe degli Apostoli; ma nel mentre ch'egli pregava all'altare, venticinque soldati e sessanta cittadini venivano passati a fil di spada nel vestibolo del Tempio. L'Arcidiacono Pelagio113 si fece innanzi a lui, e tenendo in mano il Vangelo esclamò: «oh Signore abbi pietà del tuo servo.» – «Pelagio» disse Totila con insultante sorriso, «il tuo orgoglio ora discende fino alle suppliche». – «Io sono un supplichevole» replicò il prudente Arcidiacono; «Iddio ora ci ha fatti vostri sudditi, e come vostri sudditi noi abbiamo diritto alla vostra clemenza». L'umile sua preghiera salvò le vite dei Romani; e la castità delle vergini e delle matrone rimase intatta dalle passioni dei bramosi soldati. Ma furono essi ricompensati colla libertà del saccheggio, poscia che le più preziose spoglie erano state messe in serbo pel tesoro reale. Le case dei Senatori andavano copiosamente fornite di oro e d'argento; e l'avarizia di Bessa non s'era travagliata con tanto delitto e vergogna se non se in benefizio del Conquistatore. In questa rivoluzione, i figli e le figlie dei Consoli romani sperimentarono la miseria ch'essi avevano o schernito o sollevato; essi andarono errando in cenci per le contrade della città, ed accattarono, forse inutilmente, il pane innanzi alle porte delle ereditarie lor case. Rusticiana, figlia di Simmaco, e vedova di Boezio, aveva generosamente consacrato le sue ricchezze ad alleviare le calamità della fame. Ma i Barbari furono mossi a furore dal racconto ch'ella avesse eccitato il popolo a rovesciare le statue del Gran Teodorico. La vita di questa veneranda Matrona sarebbe stata immolata alla memoria di quel Re, se Totila non avesse rispettato in lei i natali, le virtù ed anche il pio motivo della vendetta. Il giorno seguente, egli proferì due discorsi, uno de' quali, felicitava ed ammoniva i vittoriosi suoi Goti. L'altro rampognava il Senato come si farebbe co' più abbietti schiavi, e l'incolpava di spergiuro, di follia e di ingratitudine; aspramente dichiarando che i loro beni ed onori erano giustamente ricaduti ne' compagni delle sue armi. Nondimeno egli consentì ad obbliare la ribellione loro, ed i Senatori ricambiarono la sua clemenza collo spedire lettere circolari ai loro discendenti e vassalli nelle province d'Italia, colle quali strettamente ingiugnevan loro di togliersi dalle bandiere de' Greci, di coltivare in pace i terreni, e d'imparare dai loro padroni il dovere dell'obbedienza al Re Goto. Inesorabil mostrossi Totila contro la città che per sì lungo tempo avea rattenuto il corso delle sue vittorie: un terzo delle mura, in differenti parti, fu demolito per ordine suo; già si allestivano le fiamme e le macchine per consumare o mandar sossopra le più magnifiche opere dell'antichità. Il Mondo era nello stupore pel fatal decreto che Roma dovesse esser cangiata in un pascolo per gli armenti. Le ferme e moderate rimostranze di Belisario sospesero l'esecuzione della sentenza; egli ammonì il Barbaro di non contaminar la sua fama col distruggere que' monumenti, che formavano la gloria de' trapassati e la delizia dei viventi; e Totila secondò l'avviso di un nemico col preservar Roma qual ornamento del suo Regno, od il miglior pegno di riconciliazione e di pace. Come egli ebbe significato agli Ambasciatori di Belisario il suo proponimento di risparmiar la città, egli collocò un esercito in distanza di cento e venti stadj, ad osservare le mosse del Generale romano. Col rimanente delle sue forze egli avviossi ver la Lucania e l'Apulia, ed occupò sulla vetta del monte Gargano114 uno dei campi di Annibale

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<p>112</p>

Procopio non dissimula l'avarizia di Bessa (l. III c. 17, 20). Questi espiò la perdita di Roma con la gloriosa conquista di Petra (Goth. l. IV c. 12): ma gli stessi vizj lo seguitarono dal Tevere al Fasi (c. 13); e l'istorico narra con egual verità i meriti e i difetti del suo carattere. Il castigo che l'autore del romanzo di Belisario ha inflitto all'oppressore di Roma è più conforme alla giustizia che all'istoria.

<p>113</p>

Durante il lungo esilio di Vigilio, e dopo la sua morte, la chiesa romana fu governata dall'arcidiacono, indi Papa (A. C. 555) Pelagio, il quale fu creduto non innocente dei mali sofferti dal suo predecessore. Vedi le vite originali dei Papi sotto il nome di Anastasio (Muratori, Script. rer. italicarum, tom. III P. 1 p. 130, 131. il quale narra varj curiosi accidenti degli assedj di Roma e delle guerre d'Italia).

<p>114</p>

Il monte Gargano, ora monte S. Angelo, nel regno di Napoli, si prolunga trecento stadj nel mare adriatico (Strab. l. VI p. 436), e nei secoli tenebrosi fu illustrato dall'apparizione, dai miracoli e dalla chiesa di S. Michele Arcangelo. Orazio, nativo di Apulia o Lucania, avea veduto le querce e gli olmi del Gargano, sbattuti e muggenti per la forza del vento settentrionale che soffiava su quell'alta costa (Carm. II, 9. Epist. II, I, 201).