Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 10. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 10 - Edward Gibbon

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      Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 10

      CAPITOLO L

      Descrizione dell'Arabia e de' suoi abitatori. Nascita, carattere e dottrina di Maometto. Predica alla Mecca. Fugge a Medina. Propaga la sua religione colla spada. Sommessione volontaria o sforzata degli Arabi. Sua morte, e suoi successori. Pretensioni e trionfi d'Alì e de' suoi discendenti.

      Dopo avere per più di sei secoli tenuto dietro ai vacillanti sovrani di Costantinopoli e della Germania, ora risalendo all'epoca del regno d'Eraclio, mi trasferirò sulla frontiera orientale della monarchia greca. Mentre lo Stato s'impoveriva colla guerra di Persia, e straziata era la Chiesa dalla Setta di Nestorio e da quella dei Monofisiti, Maometto, colla spada in una mano e coll'Alcorano nell'altra, fondava il suo trono sulle ruine del Cristianesimo e di Roma. I talenti del Profeta arabo, i costumi del suo popolo e lo spirito della sua religione sono tra le cagioni che hanno operato il decadimento e l'ultimo crollo dell'impero d'Oriente; e la rivoluzione che ne seguì, e che si può noverare fra le più memorabili che impressero nelle varie nazioni del Globo un carattere nuovo e permanente, ci presenterà uno spettacolo ben degno de' nostri sguardi1.

      La penisola d'Arabia raffigura2 tra la Persia, la Siria, l'Egitto e l'Etiopia una specie di vasto triangolo con faccie irregolari. Dalla punta settentrionale di Beles3, sull'Eufrate, forma una linea di mille e cinquecento miglia che termina nello stretto di Babelmandel e nel paese dell'incenso. La linea del mezzo, che va dall'Oriente all'Occidente, da Bassora a Suez, dal golfo Persico al mar Rosso, può essere all'incirca la metà in lunghezza4; i lati del triangolo si dilatano insensibilmente, e la base che è al mezzodì presenta all'Oceano indiano una costa di circa mille miglia. La superficie interna della penisola è quattro volte più ampia di quella dell'Alemagna o della Francia; ma la parte più vasta di quel terreno è stata giustamente disonorata cogli epiteti di Petrea e di Arenosa. La natura almeno fregiò i deserti della Tartaria di grandi alberi, d'erbaggi abbondanti, e il viaggiator solitario vi trova nello spettacolo dei vegetabili una sorta di consolazione e di società; ma gli orridi deserti dell'Arabia non offrono allo sguardo che un'immensa pianura di sabbia, solamente interrotta da montagne aride ed angolose, e la superficie del deserto, priva d'ombra di sorta, mostra un terreno abbruciato dai raggi diretti del cocente sole del tropico. In vece di rinfrescar l'atmosfera non diffondono i venti che un vapore nocivo ed anche mortale, quando soprattutto vengono dal sud-ouest; i monti di sabbia cui formano e disperdono alternativamente, ponno paragonarsi ai flutti dell'Oceano: caravane ed eserciti intieri furono inghiottiti da quel vortice. Si desidera e si contende l'acqua colà, che per tutto il Mondo è sì comune, e tanta è la carestia di legna che ci vuol molt'arte per conservare e propagare il fuoco. Non ha l'Arabia una sola di quelle riviere navigabili, che fecondano il suolo, e ne portano alle vicine contrade le produzioni. La terra sitibonda assorbe i torrenti che cadono dalle colline: il tamarindo, l'acacia e poche piante robuste, che pongono le radici nei crepacci delle rupi, non si alimentano che della rugiada notturna: quando piove si ha cura di trattenere qualche goccia d'acqua in cisterne o in acquedotti; i pozzi e le fonti sono i secreti tesori di que' deserti, e dopo molti giorni di viaggio il trafelato pellegrino della Mecca5 non incontra per dissetarsi che poche acque ributtanti pel sapor che han contratto sopra un letto di zolfo o di sale. Tale è la prospettiva generale del clima dell'Arabia; e questa universale sterilità dà un prezzo infinito a qualche apparenza di vegetazione, che si trovi qua e là; un bosco ombroso, un meschino pascolo, una corrente d'acqua dolce invitano una colonia d'Arabi a stanziar sul fortunato terreno che loro procaccia alimento ed ombra per sè e pei lor bestiami, e li incoraggia a coltivar la palma e la vite. Le alte terre che costeggiano l'Oceano indiano son segnalate dalle legne e dall'acque che vi si rinvengono in maggior abbondanza; l'aria è più temperata, più saporite le frutta, più numerosi gli animali e gli uomini; la fertilità del suolo inanimisce e premia i lavori dell'agricoltura; e l'incenso6 ed il caffè di quelle regioni hanno tratto colà in ogni tempo i mercadanti di tutti i paesi del Mondo. Paragonando questa regione privilegiata al rimanente della penisola, merita il nome d'Arabia Felice, e mercè del contrapposto de' suoi dintorni comparisce agli occhi dell'immaginazione bella e pomposa di tutti gl'incanti della favola, che per la lontananza ha preso il credito della verità; si è supposto che la natura avesse riservato a questo paradiso terrestre i suoi favori più singolari, e le sue opere più curiose; che gli abitanti vi godessero di due cose che sembrano incompatibili; lusso e innocenza; che il suolo ridondasse d'oro e di pietre preziose7, e che terra e mare esalassero vapori aromatici. Non conoscono gli Arabi questa divisione dell'Arabia Deserta, della Petrea e della Felice tanto famigliare ai Greci ed ai Latini; ed è ben cosa singolare che un Cantone che non cangiò nè linguaggio, nè abitatori serbi appena qualche vestigio dell'antica sua Geografia. Li distretti marittimi di Bahrein e d'Oman stanno rimpetto alla Persia. Il regno di Yemen fa conoscere i limiti o almen la situazione dell'Arabia Felice: il nome di Neged si distende nell'interno delle terre, e la nascita di Maometto ha illustrato la provincia di Hejaz che giace sulla costa del mar Rosso8.

      Si misura la popolazione dai mezzi di sussistenza, e la vasta penisola dell'Arabia ha forse meno abitatori che una provincia fertile e industre. Gli Icthyofagi9, o popoli che vivon di pesci, andavano un tempo erranti sulle coste nel golfo Persico, dell'Oceano ed anche del mar Rosso a procurarsi quel precario alimento. In sì miserabile condizione, che poco merita il nome di società, quel bruto che si chiama uomo, senz'arti e senza leggi, quasi sfornito d'idee e di parole era superiore di poco al resto degli animali; per lui passavano in una silenziosa obblivione le generazioni ed i secoli, e i bisogni e gli interessi che restringeano l'esistenza del Selvaggio all'angusto margine della costa marittima, gl'impedivano il pensiero di moltiplicar la specie; ma è ben rimota di già quell'epoca in cui la gran masnada degli Arabi si tolse da quella deplorabile miseria, e non potendo il deserto mantener una popolazione di cacciatori, passarono questi subitamente al più tranquillo e più felice stato della vita pastorale. Tutte le tribù erranti degli Arabi hanno le abitudini stesse; nella faccia de' Beduini attuali si rinvengono i delineamenti dei loro avi10, i quali, al tempo di Mosè o di Maometto, abitavano sotto tende della medesima forma, e guidavano i lor cavalli, i cammelli, le gregge ai fonti ed ai pascoli stessi. Il nostro dominio sugli animali di servigio ci scema le fatiche, accrescendoci le ricchezze, ed il pastor Arabo è divenuto padrone ed arbitro d'un fedele amico, e d'uno schiavo laborioso nel suo cavallo11. Credono i naturalisti che il cavallo sia originario dell'Arabia, ove il clima è il più favorevole non alla statura, ma all'ardenza e alla velocità di questo generoso quadrupede. Il pregio de' cavalli barbari, spagnuoli ed inglesi proviene della mischianza del sangue arabo12. Con una cura superstiziosa conservano i Beduini la rimembranza della storia e dei meriti della razza più pura; si vendono carissimi i maschi, ma le femmine rare volte si contrattano, e la nascita d'un nobile poledro è un'occasione di gioia e di congratulazioni fra le tribù. Questi cavalli sono allevati sotto tende in mezzo ai fanciulli arabi, coi quali stanno in un'amichevole famigliarità che nutre in loro abitudini di dolcezza e d'affetto. Non hanno che due andature, il passo e il galoppo; le loro sensazioni non sono mortificate dalle continue percosse della sferza o dello sprone; se ne riserva la forza pei momenti in cui occorre o fuggire, o inseguire; appena sentono la mano, o la staffa si slanciano colla celerità del vento; e se nella rapida corsa il loro amico è rovesciato a terra, nel punto istesso si fermano, e aspettano che il cavaliere risalga in sella. Nelle sabbie dell'Affrica e dell'Arabia, il cammello è un dono del cielo e un animale sacro. Questa robusta e paziente bestia destinata a portare i fardelli può camminar molti giorni senza mangiare e senza bere; il suo corpo, segnato dai marchi di servitù, ha una specie di tasca, o sia un quinto stomaco, che è un serbatoio d'acqua dolce; i grandi cammelli possono

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<p>1</p>

Poichè in questo capitolo e nel seguente io mostrerò molta erudizione araba, debbo dichiarare la mia perfetta ignoranza delle lingue orientali, e la gratitudine mia pei dotti interpreti, che mi han fatto copia del lor sapere su questa materia in latino, in francese e in inglese. Indicherò a tempo e luogo le raccolte, le versioni e le storie che ho consultate.

<p>2</p>

In tre classi ponno dividersi i Geografi dell'Arabia: 1. i Greci e i Latini, le cognizioni progressive de' quali si possono esaminare in Agatarcide (De mari Rubro in Hudson, geographi minores, t. I.), in Diodoro di Sicilia (t. I. l. II, p. 159-167, l. III, p. 211-216, edit. Wesseling), in Strabone (l. XVI, p. 1112-1114), dietro Eratostene, (p. 1122-1132, dietro Artemidoro), in Dionigi (Periegesis, 927-969), in Plinio (Hist. natur., V, 12; VI, 32) e in Tolomeo (Descript. et Tabulae urbium in Hudson, t. III.) 2. Gli scrittori arabi che han trattato quest'argomento collo zelo del patriottismo o della divozione. Gli estratti dati da Pocock (Specimen Hist. Arabum, p. 125-128) della Geografia del Seriffo al-Edrissi, accrescono il disgusto che si prova nella versione, o nel sommario, (p. 24, 27, 44, 56, 108, etc.) pubblicata dai Maroniti coll'assurdo titolo della Geographia nubiensis (Paris 1619); ma i traduttori latini e francesi, Graves (in Hudson, t. III) e Galland (Voyage de la Palestine, del La Roque, p. 265-346), ci han dato a conoscer l'Arabia d'Abulfeda, descrizione la più minuta ed esatta che si abbia di quella penisola, e se le può aggiugnere per altro la Biblioteca Orientale del d'Herbelot, p. 120, et alibi passim. 3. I viaggiatori Europei, tra i quali Shaw (p. 438-455) e Niebuhr (Description, 1773; Voyages, tom. I, 1776) vogliono essere menzionati con onore: Busching (Géographie par Berenger, t. VIII. p. 416-510) ha fatto una compilazione giudiziosa; e il lettore debbe aver sotto gli occhi le carte del d'Anville (Orbis veteribus notus, e la prima parte dell'Asia) e la sua Geografia antica (t. I, p. 208-231).

<p>3</p>

Abulfeda, Descriptio Arabiae, p. 1; d'Anville, l'Eufrate e il Tigri, p. 19, 20. In questo luogo, ove si trova il paradiso, o sia giardino d'un satrapo, passò Senofonte coi Greci l'Eufrate per la prima volta (Ritirata dei diecimilal. 1. c. 10, p. 29. edit. Wells).

<p>4</p>

Il Reland ha provato con molta erudizione superflua 1. che il nostro mar Rosso (il Golfo d'Arabia) non è che l'una parte del mare Rubrum, Ερυθρα θαλασση degli antichi, che si allungava fino allo spazio indefinito dell'Oceano indiano; 2. Che i vocaboli sinonimi ερυθρος, αιθιοψς, sono allusivi al color dei Neri o Negri. (Dissert. miscell., t. I. p. 59-117).

<p>5</p>

Fra le trenta giornate o stazioni, che si contano fra il Cairo e la Mecca, quindici mancano d'acqua dolce. V. la strada degli Hadjees, nei Viaggi di Shaw, p. 477.

<p>6</p>

Plinio, nel duodicesimo libro della sua Storia naturale, (l. XII, c. 42) tratta degli aromi, e soprattutto del thus o incenso dell'Arabia: Milton in una similitudine rammenta gli odori aromatici che il vento del Nord-est trasporta sulla costa di Saba (Paradiso Perduto lib. 4).

<p>7</p>

Agatarcide afferma che vi si trovavano pezzi d'oro vergine, la cui grossezza variava da quella d'una oliva a quella d'una noce; che il ferro valea due volte e l'argento dieci volte più dell'oro (De mari Rubro, p. 60.). Questi tesori, veri o immaginarii, si son dileguati, e non si conosce al presente nell'Arabia una sola miniera d'oro. (Niebuhr, Description, p. 124).

<p>8</p>

Si consulti, si legga per intero e si studii lo Specimen Historiae Arabum di Pocock (Oxford, 1650, in 4). Le trenta pagine del testo e della versione sono un estratto delle dinastie di Gregorio Abulfaragio, tradotte poi dal Pocock (Oxford 1663, in 4.) Le trecencinquantotto note sono una Opera classica ed originale sulle antichità dell'Arabia.

<p>9</p>

Arriano indica gl'Icthyofagi della costa d'Hejaz (Periplus maris Erythraei, p. 12), e li pone ancora al di là di Aden (p. 15.). Pare probabile che le coste del mar Rosso (prese nel senso più largo) fossero abitate da quei Selvaggi anche ai tempi di Ciro; ma stento a credere che vi fossero tuttavia dei cannibali fra loro sotto il regno di Giustiniano (Procopio, De bello Persico l. I. c. 19).

<p>10</p>

V. lo Specimen Historiae Arabum, di Pocock, p. 2, 5, 86, ec. Il viaggio del Signor d'Arvieux fatto nel 1664 al campo dell'Emir del Monte Carmelo (Voyage de la Palestine, Amsterdam, 1718) presenta un quadro piacevole ed originale della vita de' Beduini, rischiarato ancora da Niebuhr, (Description de l'Arabie, p. 327-344), e dal Signor di Volney (t. I. p. 343-385), l'ultimo e il più giudizioso di quanti han pubblicati viaggi nella Siria.

<p>11</p>

Leggansi (nè sarà noiosa la briga) gli articoli impareggiabili sul Cavallo e sul Cammello dell'Istoria naturale del Signor di Buffon.

<p>12</p>

V. sui cavalli arabi il d'Arvieux (p. 159-173), e Niebuhr (p. 142-144). Sulla fin del tredicesimo secolo erano stimati i cavalli di Neged per la sicurezza del piede; quelli dell'Yemen per la forza e per l'utilità dei servigi; quelli di Hejaz per la più bella apparenza. I cavalli europei, che si poneano nella decima ed ultima classe, erano generalmente spregiati per aver troppo corpo e poco ardimento (d'Herbelot Bibl. Orient. p. 339); avean bisogno di adoperare tutto il vigore per portare il cavaliere e la sua armatura.