L'Ultima Opportunità. Maria Acosta

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L'Ultima Opportunità - Maria Acosta

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un istante su come agire. Aspettò. Alcune persone erano sparite tra gli alberi mentre altre erano rimaste ferme. Tirò un sospiro di sollievo: erano pronti ad aiutare il suo compagno. Quelli che se n’erano andati, ritornavano ora con pezzi di legno con i quali cercavano di spingere la balena verso il mare.

      Fabrizio decise di continuare il suo percorso. Ne mancavano ancora otto. Dopo alcuni minuti si girò e vide che una delle balene gli stava dietro, aspettò fino a che gli si avvicinò e poi ripresero il cammino insieme. Questo mare era molto strano, non capiva tutta questa calma. Videro dei pezzi di legno che spuntavano dall’acqua e alcune ombre molto lontane da loro. Riconobbero subito i loro amici e si fecero sentire loro. Si avvicinarono loro.

      Ne mancava soltanto uno: Stanislao, il più giovane, quantomeno in età, visto che in realtà era il più grosso.

      -“Dobbiamo trovarlo subito” –disse Fabrizio –“può darsi che sia nei guai o che non sappia come agire per tornare. È la prima volta che fa questo viaggio”.

      -“E allora?” –chiese Paolo, una balena maschio della stessa età di Fabrizio.

      -“Allora facciamoci sentire. Risponderà alla chiamata.”

      E così le nove balene fecero sentire la loro voce, una voce molto speciale che non può essere udita dagli uomini ma che una balena sente a distanza di chilometri. La risposta arrivò. Tutti quanti si diressero verso l’isola più grande che c’era in lontananza, viaggiavano piano piano, senza fermarsi. Il loro amico era in pericolo. Non capivano di che pericolo si trattasse, ma Stasnislao diceva che intorno a lui c’erano un sacco di luci che non gli permettevano di vedere niente, aveva paura, molta paura.

      Si lasciarono alle spalle quelle piccole isole, li guidava la voce del loro amico. Fabrizio era molto preoccupato, era la prima volta che suo nipote faceva quel viaggio e aveva promesso a sua sorella che lo avrebbe protetto...e non poteva ritornare senza di lui.

      Si muovevano lentamente cercando di scoprire se ci fosse qualche nemico nelle vicinanze. Erano da soli. Ogni volta la chiamata di Stanislao era più disperata. Fabrizio voleva arrivare il più presto possibile da suo nipote, era responsabilità sua che il balenottero ritornasse a casa sano e salvo, e lo stesso valeva anche per gli altri. Per questo non si affrettava e solcavano il mare con attenzione, vigili sui pericoli che avrebbero potuto incontrare. Un’ombra in lontananza lunga e un’altra dietro di essa: Fabrizio era sicuro che stavano per raggiungere Stanislao.

      -“Dai, ragazzi. Dai!”

      Dopo pochi minuti costeggiarono un’isola più grande delle altre. La chiamata di Stanislao ora si sentiva benissimo, ancora non potevano vederlo però sapevano che era molto vicino. Dopo un po’ distinsero una linea di luci che delimitava la costa e un’ombra scura nel mezzo. Era Stanislao!, pensò Fabrizio. Ma cosa stava succedendo? Sembrava che un miliardo di lampadine lo stessero circondando, lampadine molto bizzarre giacché non si fermavano mai, si accendevano e si spegnevano all’improvviso. Le balene non sapevano come agire, sembrava che Stanislao fosse nei guai. Perché non era uscito da lì? Cosa significavano quelle luci? E allora dovevano prendere una decisione. Un’idea ce l’aveva, forse avrebbe potuto funzionare, pensò Fabrizio, e la comunicò ai suoi amici. Le balene si disposero a ventaglio, formando un semicerchio; piano piano si avvicinarono e, nel momento in cui giunsero a pochi metri dalla giovane balena maschio, si immersero e tornarono subito in superficie. L’acqua che spostarono i grandi mammiferi marini risalendo in superficie fu sufficiente a far fuggire a gambe levate tutti quegli sciocchi che si trovavano sulle fondamenta degli Schiavoni e nei dintorni di Piazza San Marco, a scattare foto con i telefonini al povero Stanislao.

      Poi, tutti insieme se ne andarono allontanandosi da quella bella città. Quando finalmente si trovarono ormai lontani, in salvo, Stanislao riuscì a parlare.

      -“Andremo anche noi alla guerra?”

      -“Cosa?” –chiese Fabrizio.

      -“Ho sentito che c’è guerra ovunque, e che molti animali si sono alleati con le macchine per sconfiggere gli umani. Io voglio andare alla guerra.”

      -“Sei impazzito? La guerra non è un gioco. È qualcosa di brutto, spezza le famiglie, produce tristezza e miseria. Non si può andare in guerra con questa allegria. Non è bella. La sofferenza che produce la guerra è inimmaginabile. Come ti è venuta quest’idea?”

      -“Ho sentito alcuni pesci che ne parlavano mentre ero accecato da quelle luci che non si fermavano mai. E sembravano molto convinti di voler lottare e far del male agli umani. Raccontavano un sacco di cose terribili, anche sull’atteggiamento degli uomini verso la nostra razza. Io non ne sapevo niente. Ma se fosse vero....”

      -“È vero. L’uomo, a volte, ha avuto un atteggiamento molto cattivo con noi balene, ma altri ci hanno difeso.” –rispose Fabrizio accorgendosi che le altre balene stavano pensando la stessa cosa di suo nipote. Avrebbe cercato di farli riflettere sulla guerra e sulle sue conseguenze.

      –“Pensate alla sofferenza delle vostre famiglie se non doveste più ritornare da loro, pensate alla nostra fragile vita, anche se siamo grandi come palazzi non siamo così forti e indipendenti per far fronte alle armi moderne. Non siamo topi né conigli, che hanno un sacco di cuccioli ogni volta che la femmina è incinta; noi siamo una razza molto fragile e possiamo sparire in qualsiasi momento. Abbiamo il dovere di sopravvivere.”

      -“E allora? Dobbiamo restare qui senza fare niente mentre gli altri animali mettono a rischio la loro vita?” –chiese Stanislao sempre più fissato con la sua idea.

      Fabrizio lo guardò con tristezza. Lui era stato perseguitato dagli uomini molte volte ed era riuscito a sopravvivere a stento; nel suo corpo alcune cicatrici parlavano della sua lotta contro gli strumenti di morte degli uomini. Stanislao era giovane, era la prima volta che faceva questo viaggio e non conosceva ancora i pericoli che il mare nascondeva, ma Fabrizio lo capiva lo stesso. Anche lui avrebbe condiviso il suo pensiero molto tempo fa, ma adesso… E così Fabrizio raccontò la sua storia ai suoi amici. Finalmente capirono: avrebbero fatto tutto il possibile per aiutare il resto degli animali marini, li avrebbero portati in nascondigli dove nessuno li avrebbe potuti trovare, avrebbero avuto cura di loro se si fossero ammalati, ma non potevano fare nient’altro.

      Finora, Venezia era stata risparmiata dalla pazzia della guerra soltanto perché il generale Valvo si trovava lì e, nella sua prepotenza, si considerava un doge che poteva tenere in pugno tutti quelli che abitavano nella città. E questo gli piaceva talmente tanto che aveva deciso di fare del Palazzo Ducale la sua dimora. Era da un pezzo che percorreva i corridoi e le stanze dello storico edificio, da solo. Gli piaceva il rumore delle sue gambe metalliche sul pavimento luccicante, le tende ricamate, i letti antichi, i dipinti dei grandi artisti del passato, le statue... immaginava come sarebbe stata la sua vita ai tempi in cui Venezia era il centro della vita culturale e politica d’Europa; gli sarebbe piaciuto conoscere i galantuomini e le dame, gli artisti, e tutti quelli che popolavano Venezia nei suoi tempi di grandezza. Duca e gli altri erano all’interno della Basilica e negli altri edifici che circondavano il Palazzo Ducale. Quell’edificio era il suo feudo privato, senza il suo permesso nessuno poteva entrarci. Il suo esercito di androidi era schierato intorno al palazzo e proteggeva la sua intimità. Aveva percorso tutte le stanze, attraversato il Ponte dei Sospiri e visitato l’antica carcere. E vabbé, pensò, sarebbe ritornato a svolgere la sua funzione originaria.

      Chi avesse potuto vedere Valvo in questi momenti e ascoltarne addirittura i pensieri, avrebbe potuto dirgli che si sbagliava di grosso: sembrava più una sorta di piccolo Napoleone (almeno per quanto riguardava l’intelligenza, giacché fisicamente era più alto) che un sovrano assoluto eletto da un ristretto collegio di nobili, così come succedeva con il doge.

      Pensava

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