Oltre Il Limite Della Legalità. Alessandro Ziliotto
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“Ma che cazzo state facendo, volete muovervi, altrimenti non entriamo più in disco, e poi tutta sta roba quando la beviamo?”
“Che rottura di coglioni che sei…ma preferisci Havana o Pampero?”
“Ma piglia quello che vuoi, lo sai che bevo tutto, sei te la fighetta della situazione.”
“Eh, eh, che dici, vodka o birra?”
“T’ho detto di prendere quello che vuoi, per me è uguale. Ma voi che cazzo avete in mano? Siete proprio degli idioti.”
“…eh eh…lo sai che quando si tratta di bere siamo i numeri uno…ohhhhh…ma quello dove cazzo sta andando quello con la tua auto???”
“FERMATELO…ohhhhhhh…OHHHHH…DOVE CAZZO VAI CON LA MIA MACCHINAaaaaaaa???????”
Queste furono le ultime parole che sentii pronunciare dai quei giovani mentre lì guardavo sbracciarsi e diventare sempre più piccoli dallo specchietto retrovisore del loro mezzo di locomozione, anche perché la musica era così bella che mi sembrava maleducato abbassarla.
Appena quello sbarbatello era sceso, lo seguii all’interno del negozio come un’ombra, e una volta raggiunto lo scaffale degli alcolici, sapendone già la collazione, afferrai una bottiglia di rum qualsiasi e me ne sgattaiolai fuori come un furetto, che nemmeno Hamed se ne accorse. Era troppo indaffarato a tenere a bada quei mocciosi per accorgersi di me. Sta di fatto che ora avevo una macchina e una bottiglia di rum. Che serata meravigliosa. Potevo andarmene sui colli a godermela in santa pace. Bologna era mia. Un delinquente saggio avrebbe moderato la velocità per non farsi notare dagli “sbirri” nei paraggi, ma la cosa era più forte di me, era un richiamo corrisposto sin da bambino e tenere a tavoletta quel maledetto acceleratore era meglio che scolarsi una bottiglia d’alcool. Correre era come staccare il cervello, nessuna preoccupazione, o pensiero, solo io e la strada, e gli imbranati che la popolavano. E poi ero convinto che anche loro si divertissero un bel po’ quando gli capitava di inseguire qualcuno, o imbattersi in qualche intervento delicato nel quale il minor tempo impiegato per arrivare sul posto sarebbe stato fondamentale, per non dire vitale, almeno era quello che pensavo ora e che avevo sempre pensato; ovviamente stavo parlando degli sbirri.
Scostai per un istante l’attenzione sul compagno che avevo raccattato per la serata, niente male direi, una bella bottiglia di “Havana 7”. Mi sa che Hamed se ne sarebbe accorto, quello spilorcio. Ripensai a tutte le volte che avevo acquistato qualcosa da lui, frutta, pasta, detersivo, carta igienica, e ogni volta pretendeva sino all’ultimo centesimo, e poi di tanto in tanto cercava di arrotondare in eccesso la cifra, come se i prezzi da lui fossero così economici. Passavo da lui finito il lavoro e visto che mi capitava spesso di finire dopo le nove di sera, lui era l’unico in cui potevo trovare qualcosa di commestibile, e poi era sulla strada di casa. Non ci potevo credere, m’era andata meglio di quanto mai avessi sperato, a dire il vero mi sarei accontentato anche del rum più bevuto nei peggior bar di Caracas, ma quella sera sarei rimasto sedotto dal fascino cubano. Comunque non riuscivo ad aspettare, l’emozione di tornare al volante dopo parecchi giorni, era scomparsa non appena vidi la marca del rum che avevo rubato. Baciai sulla bocca la mia compagna di viaggio, continuando nella guida. Istintivamente avevo imboccato via Stalingrado e da lì a pochi metri sarei sbucato sui viali. Ogni metro che facevo in quella dannata città equivaleva a uno stimolo per le cellule della memoria. Alzai la radio al massimo sino a far gracchiare le casse, dopo di che mi concentrai sulla strada.
“Vediamo se riesco a far divertire questa signorotta!” Avevo gridato.
Scalai marcia, sino a farla sgommare, e una volta arrivato all’incrocio, la misi di traverso, facendo fischiare tutte e quattro le gomme.
“Ora comincio a divertirmi, e all’orizzonte nemmeno l’ombra di uno sbirro, che bello. Wow!” Urlai come un ragazzino, quasi ad incitarmi.
Questa dannata bestiolina cominciava a darmi delle soddisfazioni, e il turbo a disposizione era una carta veramente interessante da sfruttare. Arrivai sino a porta Saragozza in un batter di ciglia, senza aver qualche amico alle calcagna che mi facesse compagnia in quella divertente corsa. Anche se a esser sincero, per come si era sviluppata la serata, mi sentivo alquanto fortunato. Girai a destra, imboccando via Saragozza, sino a raggiungere i giardini di villa Spada. Lasciai la macchina a qualche centinaio di metri dal punto d’entrata del parco e guidato dalla luna, consumai i passi sino a quello che sarebbe stato il mio letto per quella notte, il manto erboso. Il cielo era limpido, nessuna nuvola che avrebbe disturbato lo spettacolo che il cielo di Bologna proiettava solamente per me. Era tutto così meraviglioso e luccicante che non sapevo dove guardare. Il cielo era un incanto. Lo spicchio di luna non offuscava la luce delle piccole stelle che puntellavano quel vellutato tappeto blu. Abbassai lo sguardo di qualche centimetro, la città con le sue luci, i suoi palazzi, si estendeva di fronte a me, con il suo fascino irresistibile. Era come se avesse indossato il suo abito da sera migliore per far breccia nel mio cuore; e ci stava riuscendo perfettamente, facendomi rimanere a bocca aperta. C’era riuscita sin dal primo momento in cui l’avevo conosciuta.
Lo ricordavo come fossero passate solamente poche ore. Ad accogliere il mio arrivo a Bologna c’era stata una caserma dissestata e definirla poco accogliente, significava esagerare. Le camere erano affollate e fatiscenti, per non parlare dei bagni, sporchi e metà dei quali non funzionanti. Credo che l’unica cosa che la facesse differenziare da un carcere fosse la libertà. Mi sentii da subito abbandonato e avvilito. Come poteva una persona, non dico un agente di polizia, ma una persona vivere in quelle condizioni? Chiamai una mia amica e a stento trattenni la delusione e l’amarezza che m’animava. Le dissi che avevo voglia di lasciare la polizia e che tutto quello che mi stava intorno mi faceva schifo. C’erano persone che sembravano felici di vivere in quelle condizioni. Ma com’era possibile? Forse non ero adatto per fare lo sbirro. Terminata la conversazione con lei, buttai la borsa nell’armadio e scappai fuori. Dovevo respirare, dovevo vedere che quello non era ciò che mi aspettava, come minimo, per i prossimi quattro anni. Presi la macchina e dopo aver girovagato per diverse ore, mi trovai dov’ero ora; ad osservare quel groviglio di strade delimitate dalle centinaia di lampioni dell’illuminazione pubblica, animate dal serpeggiare delle automobili con i loro bagliori gialli e rossi. Era così bella guardarla da lassù e allo stesso tempo, strana. Mi trasmetteva una sensazione indescrivibile, come se non facessi parte di tutto quel mondo. Mi sentivo un estraneo e di quel mondo non ne condividevo nulla, ma non riuscivo a fare a meno.
Non riuscivo a pensare a nulla, o forse pensavo troppo. Poggiai il fondoschiena a terra e lasciai che quel meraviglioso paesaggio lentamente divenisse sempre più sfocato e che l’alcool m’accompagnasse tra le braccia di Morfeo sino all’indomani. Il rum m’aiutava a sentirmi ancora più male, ogni sorso che facevo m’offuscava sempre più la vista, strappando dalla margherita della felicità, uno ad uno, i suoi petali. Mi sentivo un verme, inutile e insensato. Se avessi avuto una pistola magari mi sarei anche sparato, o almeno ci avrei pensato seriamente, ma per mia fortuna, l’unica cosa che avevo tra le mani era una bottiglia di buonissimo rum.
“Che diavolo farò domani? Come cazzo andrò avanti? Beh, domani è un altro giorno e per gli altri si vedrà.” Questo mi ripetevo tra me e me, attendendo una risposta che ovviamente non c’era.
Ogni pensiero era seguito da un sorso, e questa era l’unica soluzione che riuscivo