Le Regole Del Paradiso. Joey Gianvincenzi

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Le Regole Del Paradiso - Joey Gianvincenzi

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dal liceo pensando a come poteva essere andato il test di matematica. Cercò di ripercorrere tutti i passaggi che aveva fatto e i risultati che erano usciti alla fine degli esercizi e non le sembrò di aver commesso gravi errori. Si sforzò di focalizzare l’attenzione sul terzo esercizio, quello più difficile, ma non fece in tempo a terminare la sua analisi che Ashley le sbarrò la strada; le braccia conserte e l’aria infuriata fecero capire a Jane che ce l’aveva con lei: il sangue divenne lava.

      Cercò di evitarla, ma si era già capito cosa stava per succedere. Ashley avanzò impaziente verso di lei.

      â€œAllora brutta troia, cosa hai da dire a tua discolpa?” la voce era troppo calma, troppo sicura. I suoi occhi flagellavano quelli della povera ragazza. Dentro, quella lava, diventava sempre più densa e incandescente.

      â€œAshley, non è stata colpa mia” disse Jane con un filo di voce.

      Durante il test, dopo vari tentativi della reginetta di chiedere a Jane i risultati degli esercizi, la professoressa Fitcher aveva spostato di banco Ashley allontanandola dall’unica persona che l’avrebbe potuta aiutare.

      â€œNon mi hai aiutata quando te l’ho chiesto, la devi pagare!”

      L’ultima parola della frase fu pronunciata talmente forte che riuscì a rapire l’attenzione di molti ragazzi. Si formò il solito cerchio. Stessa scena, stesse facce.

      â€œMa era senza voto, e poi io....” non ci fu il tempo materiale per finire la frase. Partì uno schiaffo talmente forte che la faccia di Jane si girò di scatto verso destra a una velocità incredibile. Gli studenti intorno esultarono gridando come forsennati. La ragazza più sexy in azione mentre ne dava di santa ragione alla più secchiona dell’istituto.

      Jane, a testa bassa, mise la sua mano sulla guancia colpita come per ridurre il dolore.

      â€œQuesto è solo l’inizio” gridò Ashley con tutto il fiato che aveva in gola. Le sue amiche, appena capirono che con Jane avrebbero vinto di sicuro, decisero di aiutarla immobilizzando la sua avversaria. Ashley le si avvicinò e iniziò a schiaffeggiarla ripetutamente. Era esagerata la violenza che metteva in quei colpi. Le amiche che la tenevano non potevano non ridere. Dagli schiaffi e dai pugni, Ashley passò ai calci. Gliene diede uno in pancia talmente forte che Jane cadde a terra liberandosi dalla stretta delle ragazze. Nessuno interveniva. Jane era a terra intimorita. Sentiva dolore ovunque. Ashley si avvicinò e le assestò l’ultimo calcio su una gamba, poi le sputò addosso.

      â€œSei una perdente!”

      Si sistemò i capelli scompigliati e si allontanò con le amiche.

      Jane rimase qualche minuto sull’asfalto dolorante e sola.

      * * *

      Era passata una settimana da quel traumatico scontro fuori dalla scuola.

      Per sette giorni Jane rimase a letto con dolori acuti e martellanti che partivano dalla pancia fino ad arrivarle in testa e nonostante le condizioni della figlia, il signor Gary non se ne preoccupò più di tanto: era sempre fuori casa e durante quei giorni non degnò Jane di un minimo di attenzione. Stranamente però, quella sera, il capofamiglia si accorse di qualcosa.

      â€œChe cazzo hai fatto all’occhio destro?” lei abbassò lo sguardo verso la minestra fumante davanti a sé. Non aveva il coraggio di dirgli la verità.

      â€œSono caduta” rispose.

      Il signor Gary, non appena sentì quella bugia, assestò un colpo fortissimo al tavolo facendo fuoriuscire qualche goccia di minestra dai piatti.

      Ginger mangiava tranquillamente, come se fosse una normalissima chiacchierata tra padre e figlia.

      â€œAscoltami brutta troietta” disse lui con voce calma e fredda, “a me non devi raccontare le stronzate, quello è un pugno e se te lo hanno dato significa che te le sei meritato”.

      Era inutile ribattere o cercare il modo di farlo ragionare. Era pazzo.

      Jane se ne rimase lì, a testa bassa, con le sue ‘colpe’ e la sua ingiusta sgridata giornaliera. Lei non poteva mettersi contro il padrone di casa, il padrone della sua vita e della sua libertà; ogni sua decisione era legge, ogni suo ordine non poteva essere discusso in alcun modo. Quando Gary assumeva atteggiamenti fortemente aggressivi, Jane si ripeteva in continuazione che quell’agitazione, quella rabbia che sembrava non finire mai e quella cattiveria, erano i risultati della morte di sua madre; non avendo più una moglie amorevole, servizievole e meravigliosa come lo era sempre stata lei, la bestia, secondo Jane, avrebbe perso completamente il lume della ragione, cercando quindi di crearsi un personaggio cattivo e temibile solo per farsi scudo davanti al mondo che lo guardava con aria di sfida, come se tutti lo volessero mettere sotto esame, per valutare giorno dopo giorno la sua resistenza ad una quotidianità difficile da vivere. Forse riusciva anche a capirlo; doveva essere dura scivolare tra le lenzuola di un letto vuoto e addormentarsi senza tenere la mano di nessuno, senza abbracciare la propria donna. Jane, prima che arrivasse Ginger, notava che la solitudine di Gary era presente in ogni momento della sua giornata. Ogni volta che veniva sgridata, senza farsi notare, cercava di annullare le sue parole e abbassare al minimo il volume dei suoi insulti e delle parolacce che avrebbe voluto lanciargli contro per concentrarsi solo nella lettura dei suoi occhi e cercare di capirne tutti i segreti. In tutti i modi affondava per brevi attimi il suo sguardo nel suo, ma quello che riusciva a vedere non era altro che la costituzione dell’occhio umano che conosceva già alla perfezione: la superficie esterna dell’occhio formata per il 93% dalla sclera, l’iride, la membrana vascolare, la pupilla, la quale permetteva alla bestia, come a qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra esente da tutti i tipi di malattie all’apparato visivo, di vedere grazie all’entrata della luce che essa lasciava passare all’interno del bulbo oculare. Si sarebbe dilatata in assenza di luce e si sarebbe ristretta se la luce fosse stata troppa: sapeva benissimo che quel processo si chiamava miosi e sapeva altre cose, altri nomi tecnici, altre informazioni, sapeva tutto tranne che leggere con l’anima quegl’occhi così interessanti. Cercava in ogni modo di chiamare con un nome specifico quella strana luce che le veniva mentre la sgridava, ma proprio non ci riusciva: voleva aggettivare il processo di metamorfosi che subiva il suo volto quando iniziava a sbraitare, ma non era capace; non sapeva neppure se lui fosse in grado di assumere altre espressioni facciali, come la più semplice che la natura avesse mai potuto inventare, ma anche la più complessa e difficile da compiere per l’uomo: il sorriso.

      Era per questo che cercava di giustificare i suoi atteggiamenti isterici, dai modi bruschi che aveva di trattarla, anche se poi, per come si comportava, di giustificazioni proprio non ce n’erano.

      * * *

      Jane indossò un pesante cappotto, il cappello e i guanti di lana. Mentre raggiungeva la scuola, pensava che avrebbe preferito un’imminente disgrazia piuttosto che un altro incontro con Ashley; quando arrivò davanti al liceo la sua mente le proiettò i terribili attimi che le aveva fatto passare la reginetta della scuola insieme alle sue amiche. Sperava con tutta se stessa di non incontrarla mai più, sperava che si fosse trasferita per sempre in un’altra città, ma sapeva benissimo che le sue speranze infondate non sarebbero mai potute diventare realtà, così sperò solo nella sua assenza. Le faceva male ancora la parte destra del torace e se quella mattina Ashley l’avesse picchiata di nuovo, sarebbero arrivati altri dolori atroci da sopportare.

      Non

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