Giuramento Fraterno . Морган Райс

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Giuramento Fraterno  - Морган Райс L’Anello Dello Stregone

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trovava in piedi su una pedana rialzata e li guardava. La tensione era densa nell’aria e Volusia poteva percepire che stavano tutti aspettando, pensierosi, decidendo se ucciderla o ubbidirle.

      Volusia li guardava con fierezza, sentendo il proprio destino davanti a sé. Lentamente alzò lo scettro d’oro sopra la testa. Si voltò lentamente guardando da tutte le parti in modo che potessero vederla, che tutti potessero vedere il suo scettro che brillava al sole.

      “MIO POPOLO!” disse con voce tonante. “Io sono la dea Volusia. Il vostro principe è morto. Ora sono io a tenere lo scettro, sono io quella che dovete seguire. Seguitemi e guadagnerete gloria e ricchezze e tutti i desideri del vostro cuore. Rimanete qui e vi perderete e morirete in questo luogo, all’ombra di queste mura, all’ombra del cadavere di un sovrano che non vi ha mai amati. Lo avete servito nella follia; servirete me nella gloria, nella conquista. Avrete finalmente il capo che vi meritate.”

      Volusia sollevò lo scettro più in alto, guardandoli e incrociando i loro sguardi disciplinati, percependo il proprio destino. Sentì di essere invincibile, che niente poteva fermarla, neppure quelle centinaia di migliaia di uomini. Sapeva che anche loro, come tutto il mondo, si sarebbero inchinati davanti a lei. Lo vedeva accadere nell’occhio della mente: dopotutto era una dea. Viveva in un regno al di sopra degli uomini. Che scelta potevano avere?

      Come aveva previsto, si udì un lento sferragliare di armature e uno alla volta tutti gli uomini di fronte a lei si misero in ginocchio, uno dopo l’altro, mentre il rumore metallico delle loro armature si diffondeva nel deserto.

      “VOLUSIA!” intonarono sottovoce, continuando a ripeterlo.

      “VOLUSIA!”

      “VOLUSIA!”

      CAPITOLO QUATTRO

      Godfrey sentiva il sudore scorrergli lungo la schiena mentre stava intrufolato tra gli schiavi, cercando di rimanere con il gruppo e di non farsi vedere man mano che percorrevano le strade di Volusia. Si sentì un altro schiocco nell’aria e Godfrey gridò di dolore, colpito dalla punta della frusta. La schiava accanto a lui, cui la frustata era destinata, urlò molto più forte: venne colpita in pieno in mezzo alla schiena e inciampò in avanti.

      Godfrey la afferrò prima che potesse cadere, agendo d’impulso e sapendo che così facendo rischiava la vita. Lei si ristabilizzò sui piedi e si voltò verso di lui, con il panico stampato in volto. Quando lo vide sgranò gli occhi per la sorpresa. Chiaramente non si era aspettata di vederlo: un uomo con la pelle chiara che camminava libero accanto a lei, senza catene. Godfrey scosse la testa rapidamente e si portò un dito alla bocca pregandola di fare silenzio. Fortunatamente la donna ubbidì.

      Si udì un altro schiocco di frusta e Godfrey guardò oltre vedendo i supervisori che si facevano strada nel gruppo frustando gli schiavi senza particolare motivo, evidentemente solo per far sentire la loro presenza. Guardandosi alle spalle notò, proprio dietro di lui, i volti terrorizzati di Akorth e Fulton, con gli occhi che guizzavano attorno e accanto a loro le espressioni calme e determinate di Merek e Ario. Godfrey era meravigliato che quei due ragazzini mostrassero più compostezza e coraggio di Akorth e Fulton, due uomini grandi e grossi, e pure ubriachi.

      Continuarono a camminare e Godfrey sentì che si stavano avvicinando alla loro destinazione, qualsiasi essa fosse. Ovviamente non poteva lasciare che arrivassero lì: doveva fare qualcosa quanto prima. Aveva ottenuto il suo scopo, era riuscito ad entrare a Volusia, ma ora doveva liberarsi da quel gruppo prima che tutti venissero scoperti.

      Si guardò in giro e notò qualcosa che gli fece balzare il cuore in petto: i supervisori erano ora più raggruppati verso l’inizio della carovana di schiavi. Aveva un certo senso: dato che tutti gli schiavi erano incatenati insieme, non c’era ovviamente nessun posto dove potessero fuggire e i supervisori non sentivano giustamente la necessità di sorvegliare il retro del gruppo. A parte l’unico supervisore che camminava su e giù lungo le righe frustandoli, non c’era nessuno a impedire loro di scivolare via dal retro della carovana. Potevano scappare, svignarsela in silenzio tra le strade di Volusia.

      Godfrey sapeva che dovevano agire velocemente, eppure il cuore gli batteva forte in petto ogni volta che pensava di mettere in atto quella mossa coraggiosa. La sua mente gli diceva di andare, ma il suo corpo restava esitante, incapace di raccogliere tutto il coraggio necessario.

      Godfrey ancora non credeva che fossero lì, che ce l’avessero veramente fatta a passare entro le mura. Era come un sogno, un sogno che diventava sempre più brutto. L’intontimento causato dal vino si stava dissipando, e più svaniva più lui si rendeva conto che la sua idea era stata profondamente sbagliata.

      “Dobbiamo uscire da qui,” bisbigliò Merek chinandosi verso di lui. “Dobbiamo fare qualcosa.”

      Godfrey scosse la testa e deglutì, con il sudore che gli bruciava gli occhi. Una parte di lui sapeva che Merek aveva ragione, ma un’altra parte lo costringeva ad aspettare il momento giusto.

      “No,” rispose. “Non ancora.”

      Godfrey si guardò attorno e vide ogni genere di schiavi incatenati e trascinati attraverso le strade di Volusia, non solo schiavi di pelle scura. Era come se l’Impero fosse riuscito a catturare ogni sorta di razza da ogni angolo del mondo, chiunque non appartenesse alla razza dell’Impero, chiunque non avesse pelle gialla e lucida, imponente altezza, spalle larghe e le piccole corna dietro le orecchie.

      “Cosa stiamo aspettando?” chiese Ario.

      “Se corriamo in mezzo alle strade,” disse Godfrey, “potremmo essere troppo evidenti. Potremmo anche essere catturati. Dobbiamo aspettare.”

      “Aspettare cosa?” insistette Merek con la frustrazione nella voce.

      Godfrey scosse la testa disorientato. Si sentiva come se il suo piano stesse crollando.

      “Non lo so,” disse.

      Svoltarono a un’altra curva e così facendo l’intera città di Volusia si aprì davanti a loro. Godfrey guardò quella veduta sbalordito.

      Era la città più incredibile che avesse mai visto. Godfrey, essendo figlio di un re, aveva visitato grosse città, città grandiose e ricche, fortificate. Aveva visitato alcune delle più belle città del mondo. Poche erano in grado di competere con la maestosità di Savaria, di Silesia, o ancor più della Corte del Re. Non si lasciava stupire facilmente.

      Ma non aveva mai visto nulla del genere. Era una combinazione di bellezza, potere e ricchezza. Soprattutto di ricchezza. La prima cosa che colpì Godfrey furono tutti gli idoli. Ovunque in giro per la città erano collocate statue di idoli e dei che Godfrey neppure conosceva. Uno sembrava essere un dio del mare, un altro del cielo, un altro delle colline… ovunque c’erano masse di persone che si chinavano davanti ad esse adorandole. In lontananza, torreggiante sulla città, c’era un’enorme statua d’oro che si levava di una buona trentina di metri, raffigurante Volusia. Una grande folla di persone era raggruppata e china attorno ad essa.

      Un’altra cosa che sorprese Godfrey furono le strade ricoperte d’oro, brillanti e immacolate, tutto meticolosamente lindo e pulito. Tutti gli edifici erano fatti di pietra perfettamente squadrata, non c’era un solo blocco fuori posto. Le strade della città si allungavano ovunque e la città sembrava distendersi all’orizzonte. Ciò che lo colpì ancora di più furono i canali e i corsi d’acqua che si intrecciavano con le vie, a volte disegnando archi, a volte cerchi, portando le azzurre correnti dell’oceano e facendo da condutture, come l’olio che faceva funzionare quella città. Tutti i canali erano pieni di vascelli dorati e decorati che si facevano aggraziatamente strada lungo quei corsi d’acqua passando tra le strade.

      La

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